
Un semplice pescatore della Betsaida proclama che il figlio di un falegname è realmente Figlio di Dio, per natura. Costui, in seguito, annuncia che edificherà un’opera indistruttibile e lascerà in mano del suo amministratore “le chiavi del Regno del Cielo”. L’ambiente che lo circonda è povero, arido, ma di una certa grandezza. Lì è piantato il grano di senape, dal quale nasceranno le chiese, le cerimonie, le università, i martiri, dottori e santi, insomma la Santa Chiesa Cattolica Apostolica e Romana.
I – Considerazioni iniziali
È difficile incontrare qualcuno che abbia mai messo in dubbio la consonanza della sonorità di cristalli armonici. Basta un semplice tocco, in uno solo di loro, affinché anche gli altri risuonino. È, addirittura, una prova per riconoscere l’autenticità di questa o quella coppa.
Così avviene anche nel campo delle anime. Discerniamo quella che è visceralmente cattolica e con facilità la differenziamo dalla debole, atea o eretica, quando facciamo “risuonare” una semplice nota: l’amore al Papato, qualunque sia il Papa. Diventano incandescenti le anime ferventi, indifferenti quelle deboli, indisposte alcune, ecc.
Statua di San Pietro rivestita coi paramenti pontificali Basilica Vaticana |
Questo è dunque l’argomento del Vangelo di oggi. Per prepararci a contemplare le prospettive che esso ci manifesta, ci è parso opportuno riprodurre le considerazioni trascritte di seguito. Potremo, in questo modo avere una nozione della qualità del “cristallo” della nostra anima:
“Tutto ciò che nella Chiesa esiste quanto a santità, autorità, virtù soprannaturale, tutto questo, ma proprio tutto senza eccezione alcuna, né condizione, né restrizione, è subordinato, condizionato, dipendente dall’unione alla Cattedra di San Pietro. Le istituzioni più sacre, le opere più venerabili, le tradizioni più sante, le persone più cospicue, tutto quanto insomma che possa esprimere più genuinamente e altamente il Cattolicesimo e ornare la Chiesa di Dio, tutto questo diventa nullo, maledetto, sterile, degno del fuoco eterno e dell’ira di Dio, se disgiunto dal Romano Pontefice.
Conosciamo la parabola della vite e dei tralci. In questa parabola, la vite è Nostro Signore, i tralci sono i fedeli. Ma siccome Nostro Signore Si è legato indissolubilmente alla Cattedra Romana, si può dire con tutta sicurezza che la parabola sarebbe vera raffigurando la vite come la Santa Sede, e i tralci come le varie Diocesi, Parrocchie, Ordini Religiosi, istituzioni particolari, famiglie, popoli e persone che costituiscono la Chiesa e la Cristianità.
Tutto questo sarà veramente fecondo soltanto nella misura in cui sarà in intima, calorosa, incondizionata unione con la Cattedra di San Pietro.
‘Incondizionata’, abbiamo detto, e a ragione. In morale, non ci sono condizionalismi legittimi. Tutto è subordinato alla grande ed essenziale condizione di servire Dio. Dato che il Santo Padre è infallibile, l’unione al suo infallibile magistero può solamente essere incondizionata.
Per questo, è segno di vigore spirituale, un’estrema suscettività, un fremito delicatissimo e vivace dei fedeli per tutto quanto riguardi la sicurezza, gloria e tranquillità del Romano Pontefice. Dopo l’amore a Dio, è questo il più alto degli amori che la Religione ci insegna. L’uno e l’altro amore addirittura si confondono. Quando Santa Giovanna d’Arco fu interrogata dai persecutori che la volevano uccidere, e che per questo scopo cercavano di farla cadere nell’errore teologico con qualche domanda capziosa, ella rispose: ‘Quanto a Cristo e alla Chiesa, per me sono una cosa sola’. E noi possiamo dire: ‘ Per noi, tra il Papa e Gesù Cristo non c’è differenza’. Tutto quanto si dice relativamente al Papa riguarda direttamente, intimamente, indissolubilmente, Gesù Cristo”1.
II – Il Vangelo: “Tu es Petrus”
Domanda di Gesù e circostanze nelle quali fu formulata
Essendo giunto Gesù nella regione di Cesarèa di Filippo, chiese ai suoi discepoli: “La gente chi dice che sia il Figlio dell’uomo?”.
La città nella quale si svolge il Vangelo di oggi era stata costruita dal tetrarca Filippo che, per attirarsi la simpatia dell’imperatore Cesare Augusto, le diede il nome di Cesarea. La Storia non conosce l’esatto percorso intrapreso dal Signore e dagli apostoli in quel momento degli avvenimenti; l’ipotesi più probabile è quella che avessero attraversato la via di Damasco a Gerusalemme, presso il ponte delle Figlie di Giacobbe.
Il territorio dove nasce il fiume Giordano, compreso tra Giulia e Cesarea, è roccioso, solitario e accidentato. Fu in questa località montuosa e pietrosa che Erode il Grande, eresse un vistoso tempio di marmo bianco in omaggio all’imperatore Cesare Augusto. Calcando le pietre di questa regione, forse alla vista di questo tempio in cima alle rocce, avvenne che si stabilì il dialogo durante il quale diventarono esplicite per gli apostoli la natura divina di Gesù e l’edificazione della Santa Chiesa.
Conviene non dimenticarci quanto la divina pedagogia di Gesù scegliesse gli accidenti della natura sensibile per uno scopo didattico, in modo che chi ascoltava potesse comprendere meglio le realtà invisibili dell’universo della fede. A questo proposito, sono innumerevoli i casi che meriterebbero di essere citati, ma ci basta ricordare il modo in cui Egli ha convocato i due fratelli pescatori, Pietro e Andrea: “Seguitemi ed Io vi farò pescatori di uomini” (Mt 4, 19).
Non si tratta, pertanto, di basarci su ragioni meramente poetiche per supporre che lo svolgimento di questo dialogo si sia verificato sulle pietre; contiene un elevato tenore simbolico. Lì erano presenti le rocce che dovevano perpetuarsi e la contemplazione di queste creature minerali, frutto della sua onnipotenza, rendeva più bella la solenne profezia dell’edificazione della sua indistruttibile Chiesa.
Alcuni autori mettono in risalto un altro importante aspetto: il fatto che Gesù abbia scelto una regione appartenente al mondo pagano per manifestarSi come Figlio di Dio e fondare il primato della sua Chiesa. Essi interpretano come un preannuncio del rifiuto del regno messianico, da parte dei giudei, e il loro definitivo trasferimento in seno ai gentili.
“Un giorno, mentre Gesù si trovava in un luogo appartato… ” (Lc 9, 18). Secondo il racconto di San Luca, tutta la conversazione narrata nel Vangelo di oggi si realizzò dopo che Gesù Si era ritirato e Si era lasciato “perdere”, con le sue facoltà umane, nelle infinitezze del suo Padre eterno. Egli utilizzò questo mezzo infallibile di azione, la preghiera, per conferire radici e linfa immortali all’opera che avrebbe lanciato.
Secondo la Glossa, “volendo confermare i suoi discepoli nella fede, il Salvatore comincia con l’allontanare dal loro spirito le opinioni e gli errori che altri avrebbero potuto infondergli” 2; ossia, invitandoli ad avere una chiara coscienza degli equivoci dell’opinione pubblica riguardo alla Sua identità, fortificava in loro le convinzioni. È curioso il commento di San Giovanni Crisostomo sul carattere “sommamente malizioso” 3 del giudizio emesso dagli scribi e dai farisei riguardo al Signore, molto differente da quello dell’opinione pubblica che, malgrado fosse erroneo, non era mosso da nessuna malizia.
Dettaglio del quadro “Cristo consegna le chiavi a San Pietro”, di Vicente Catena – Museo del Prado, Madrid |
Gesù non chiede che cosa pensino gli altri di Lui, ma cosa pensino riguardo al Figlio dell’Uomo, ” al fine di sondare la fede degli apostoli e dar loro l’occasione di dire liberamente quello che sentivano, sebbene Egli non oltrepassasse i limiti di quello che avrebbe potuto suggerirgli la sua santa Umanità” 4. Con tutte le conoscenze che Gli erano proprie, dal divino allo sperimentale, Gesù sapeva quali erano le opinioni che circolavano sulla Sua persona, non aveva bisogno, pertanto, di informarSi; desiderava piuttosto portarli a proclamare la verità contestando gli equivoci dell’opinione pubblica.
Il popolo non considerava Gesù come il Messia
Risposero: “Alcuni Giovanni il Battista, altri Elia, altri Geremia o qualcu- no dei profeti”.
Gli apostoli avevano una nozione esatta del giudizio che gli “uomini” di allora si erano fatti a proposito del Signore.
Malgrado ogni evidenza, i miracoli, la dottrina nuova dotata di potenza, ecc., il popolo non Lo considerava come il Messia tanto atteso. Gesù appariva agli occhi di tutti come la resurrezione o la riapparizione di profeti precedenti. Non trovavano in Lui l’efficace magnificenza del potere politico, così essenziale per la realizzazione del mirabolante sogno messianico che li inebriava. Di conseguenza Lo immaginavano come il Battista risorto, o Elia, in quanto più specificamente un precursore, o addirittura un Geremia, legittimo difensore della nazione teocratica (cfr. 2º Mac 2, 1-12).
Si vede chiaramente in questo versetto come lo spirito umano sia incline all’errore e come facilmente si allontani dalla vera ottica della salvezza. Ma, almeno, quei suoi contemporanei ancora discernevano qualcosa di grandioso in Gesù. Sarebbe interessante chiederci come Egli sarebbe visto dall’umanità globalizzata, scientifista e relativista dei nostri giorni.
Pietro Lo riconosce come Figlio di Dio
Disse loro: “Voi chi dite che io sia?”.
Sottolinea molto bene San Giovanni Crisostomo l’essenza di questa seconda domanda 5. Senza confutare gli errori di valutazione degli altri, Gesù vuole udire dalle stesse labbra dei suoi più intimi il giudizio che di Lui hanno. Per render loro facile la proclamazione della Sua divinità, non usa qui il titolo umile di Figlio dell’Uomo.
Rispose Simon Pietro: “Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente”.
Pietro parlava interpretando l’opinione di tutti, in quanto era il più fervente e il principale 6, quantunque non fosse la prima volta che Gesù era riconosciuto come Figlio di Dio. Già Natanaele (cfr. Gv 1, 49), gli apostoli dopo la tempesta nel mare di Tiberiade (cfr. Mt 14, 33) e lo stesso Pietro (cfr. Gv 6, 69) avevano manifestato questa convinzione. Sola fides! Qui non c’è alcun elemento emozionale o sensibile, come in circostanze precedenti. Tra le rocce fredde di un ambiente naturale, lontano da avvenimenti coinvolgenti e dall’agitazione delle turbe o delle onde, soltanto la voce della fede si fa udire.
“Una prova certissima è che Pietro chiamò Cristo Figlio di Dio per natura, quando Lo contrappose a Giovanni, a Elia, a Geremia e ai profeti, i quali erano stati – è chiaro – figli di Dio per adozione” 7. Inoltre, come commenta lo stesso Maldonado, Pietro dà a Dio il titolo di “vivo” per distinguerLo dagli dei pagani che sono sostanze morte. Infine, l’articolo – come di solito accade nella lingua greca – precedendo il sostantivo “figlio”, designa “figlio unico” secondo natura, e non uno fra tanti.
La scienza umana non ha la forza per raggiungere l’unione ipostatica
E Gesù, rispondendo gli disse: “Beato te, Simone figlio di Giona, perché né la carne né il sangue te l’hanno rivelato, ma il Padre mio che sta nei cieli.
Nel felicitarsi con il suo apostolo, Gesù valuta l’affermazione di Pietro riguardo la sua filiazione e, pertanto, la sua natura divina e consustanzialità con il Padre. Su questo particolare sono unanimi i commentatori. Era un costume giudaico indicare la filiazione della persona per metterne in risalto l’importanza; in questo caso concreto c’era l’intenzione di manifestare quanto “Cristo è tanto naturalmente il Figlio di Dio come Pietro è figlio di Giona, cioè, della stessa sostanza di colui che lo ha generato”8.
Il fondamento è Pietro e tutti i suoi successori, i romani pontefici, poiché, in caso contrario, non perdurerebbe l’esistenza dell’edificio Piazza di San Pietro – Vaticano |
Le parole di Pietro non sono frutto di un ragionamento che si basi su una semplice conoscenza sperimentale. Non erano state poche le guarigioni subito dopo le quali i beneficiati conferivano con esclamazioni al Salvatore il titolo di “Figlio di Davide” (cfr.Mt 15, 22; Mc 10, 47, ecc.), noto come uno degli appellativi del Messia. Gli stessi demoni, incontrandosi con Lui, Lo proclamavano “il Santo di Dio” (Lc 4, 34), “il Figlio di Dio” (Lc 4, 41), “Figlio dell’Altissimo” (Lc 8, 28; Mc 5, 7).
Egli stesso aveva dichiarato di essere “Signore del sabato” (Mt 12, 8), e dopo la moltiplicazione dei pani la moltitudine voleva acclamarLo “Re” (Gv 6, 15). Così come questo, molti altri passi potrebbero facilmente indicarci le profonde impressioni prodotte da Gesù sui suoi discepoli9. Ma, in nessuna occasione precedente Pietro ricevette un tale elogio proveniente dalle labbra del Salvatore. In questo passo, egli “è felice perché ha avuto il merito di alzare il suo sguardo oltre ciò che è umano e, senza soffermarsi su ciò che proveniva dalla carne e dal sangue, contemplò il Figlio di Dio per un effetto della rivelazione divina e fu giudicato degno di essere il primo a riconoscere la Divinità di Cristo”10.
Pertanto l’affermazione di Pietro si realizzò sulla base di un discernimento penetrante, lucido e comprensivo della natura divina del Figlio di Dio.
La scienza, la genialità e qualsiasi altro dono umano non hanno la forza sufficiente per attingere le vaste pianure dell’unione ipostatica realizzata nel Verbo Incarnato. È indispensabile che sia rivelata dallo stesso Dio e accettata dall’uomo. Ma l’uomo senza fede si aggrappa alle sue idee, tradizioni e studi, respingendo, a volte, le prove più evidenti, come sono per esempio i miracoli. Per costui, Gesù non è altro che, al massimo, un saggio o un profeta. Ci saranno anche coloro che non Lo vedranno se non come “il figlio del falegname” (Mt 13, 55).
Questa è la nostra fede insegnata dalla Chiesa, rivelata dallo stesso Dio, annunciata dal Figlio, l’inviato del Padre e confermata dallo Spirito Santo, inviato dal Padre e dal Figlio.
Le verità della fede non sono frutto di sistemi filosofici, né dell’elaborazione di grandi saggi.
Gesù edifica la Sua Chiesa su Pietro
E io ti dico: Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia chiesa e le porte degli inferi non prevarranno contro di essa.
Molto ispirata oltre che indispensabile ed eccellente è la seguente affermazione di Origene: “Nostro Signore non specifica se è contro la pietra sulla quale Cristo ha edificato la sua Chiesa o se è contro la stessa Chiesa, costruita sopra la pietra, che le porte dell’inferno non prevarranno. Ma è evidente che esse non prevarranno né contro la pietra né contro la Chiesa”11.
Sì, perché per distruggere questa pietra, ossia, il Vicario di Gesù Cristo sulla Terra, sono stati impiegati molti sforzi da parte di un considerevole numero di eretici, nel tentativo di scuotere il sacro edificio della Chiesa a partire dal suo fondamento, che è la gioia, la consolazione e il trionfo dei veri cattolici. In questo “edificherò” si trova il reale annuncio del Regno di Gesù. Il grande e divino disegno comincia a delinearsi con questo nome, fino ad allora mai usato: “la mia Chiesa”.
Il piano di Gesù è proclamato sulle rocce di Cesarea, dallo stesso Figlio di Dio, che Si presenta come un divino architetto a erigere questo edificio indistruttibile, grandioso e santissimo, la società spirituale, costituita da uomini: militante sulla Terra, sofferente in Purgatorio, trionfante nel Cielo. L’insieme di tutti coloro che si uniscono sotto la stessa fede, in questa Terra, si chiama Chiesa. Di questa, il fondamento è Pietro e tutti i suoi successori, i romani pontefici, poiché, in caso contrario, non perdurerebbe l’esistenza dell’edificio. Ecco un punto vitale della nostra fede: “il fatto che la Chiesa è edificata sullo stesso Pietro” – che del resto – “è ammesso da tutti gli autori antichi, eccetto gli eretici”12.
Un solo corpo e un solo spirito intorno al Successore di Pietro
“Ci sono nella Chiesa molte persone costituite in autorità, alle quali dobbiamo restare uniti con l’obbedienza. Intanto, tutta questa varietà deve ridursi ad un prelato primo e supremo, in cui principalmente si concentri il principato universale su tutti. Deve ridursi non solo a Dio e a Cristo, ma anche al Suo vicario; e questo non per statuto umano, ma per statuto divino, mediante il quale Cristo designa San Pietro principe degli apostoli, stabiliti questi, a loro volta, come principi nella Terra. Cristo ha fatto questo molto convenientemente, perché così lo esigevano l’ordine della giustizia universale, l’unità della Chiesa e la stabilità, tanto di questo ordine, quanto di questa unità” 13.
Il “Tu sei Pietro…” sarà applicato a tutti coloro che sono scelti in conclave per sedersi sulla Cattedra dell’Infallibilità.
Così, è morto Pietro, ma non il Papa, ed è intorno a lui che la Chiesa conserva la sua unità.
“Facile è la prova che conferma la fede e compendia la verità. Il Signore parla a San Pietro e gli dice: ‘Io ti dico che tu sei Pietro’ (Mt 16, 18). Ed in un altro passo, dopo la sua resurrezione: ‘Pasci le mie pecore’ (Gv 21, 17). Solamente su di lui edifica la sua Chiesa, e lo incarica di pascere il suo gregge. E sebbene conferisca uguale potere a tutti gli apostoli e dica loro: ‘Come il Padre ha mandato me, anch’io mando voi’ (Gv 20, 21), senza dubbio, per manifestare l’unità, ha stabilito una Cattedra, e con la sua autorità ha disposto che l’origine di questa unità si fondasse in uno. Sicuramente, tutti gli apostoli eranocome Pietro, ornati con la stessa partecipazione di onore e potere; ma il principio deriva dall’autorità, e a Pietro fu dato il Primato per dimostrare che una sola è la Chiesa di Cristo e una la Cattedra. Tutti sono pastori, ma c’è un solo gregge istruito dagli apostoli di comune accordo […].
Può avere fede chi non crede in questa unità della Chiesa? Può pensare di trovarsi nella Chiesa chi si oppone e le resiste, chi abbandona la Cattedra di Pietro, sulla quale essa è fondata? San Paolo insegna pure lui la stessa cosa, e manifesta il mistero dell’unità, dicendo: ‘Esiste un solo corpo e un solo spirito, come una sola è speranza, quella della vostra vocazione. Un solo Signore, una sola fede, un solo battesimo, un solo Dio’ (Ef 4, 4-6)” 14.
Giurisdizione piena, suprema e universale
Se leggiamo gli Atti degli Apostoli, troveremo Pietro che esercita questo supremo potere, parlando in primo luogo nelle riunioni degli apostoli, proponendo quello che si deve fare, inaugurando la missione apostolica, chiudendo le discussioni con la sua parola, ecc. Così si è perpetuata, nel corso di due millenni, la giurisdizione e il magistero dei papi.
Ogni successore di Pietro possiede la vera giurisdizione, poiché ha il potere di promulgare leggi, giudicare e imporre pene, in forma diretta, in materia spirituale, e indiretta, nel campo temporale, sempre che si presenti come necessaria per ottenere beni spirituali. Questa giurisdizione è piena: non esiste potere nella Chiesa che non risieda nel Papa. È universale, ossia, tutti i membri della Chiesa (fedeli, sacerdoti e vescovi) a lui sono sottomessi.
È, inoltre, suprema: il Papa al di sopra di tutti, nessuno al di sopra di lui. Perfino i Concili Ecumenici non possono realizzarsi se non sono convocati e presieduti da lui. Gli stessi statuti conciliari non lo obbligano, avendo lui il potere di mutarli o di derogarli.
Magistero infallibile
Altrettanto si può affermare a proposito di una analoga e grande funzione di Pietro e dei suoi successori: il supremo Magistero che, come colonna che sostiene la Chiesa, non può essere fallibile. Il Papa è infallibile parlando ex cathedra, ossia, in quanto dottore di tutti i cristiani, definendo con autorità apostolica dottrine sulla fede e la morale, che devono essere accettate da tutta la Chiesa universale. Qui sta il motivo per il quale “le porte dell’inferno” non potranno sovrapporsi a un edificio costruito sulla pietra che è Pietro.
“Dolce Cristo sulla Terra”
“A te darò le chiavi del regno dei cieli, e tutto ciò che legherai sulla terra sarà legato nei cieli, e tutto ciò che scioglierai sulla terra sarà sciolto nei cieli”
Cristo sarebbe tornato al Padre, lasciando nelle mani di Pietro le chiavi della sua Chiesa. “Chi ha l’uso legittimo ed esclusivo delle chiavi di una casa o di una città, costui è l’amministratore, il sovrintendente supremo che ha ricevuto i poteri del suo signore. La Chiesa è il regno dei Cieli in questo mondo; la Chiesa Trionfante sarà il regno definitivo ed eterno dei Cieli, prolungamento di questa stessa Chiesa della Terra, ormai purificata da ogni impurità. Pietro avrà il potere di aprire e chiudere l’entrata in questa Chiesa temporale e, conseguentemente, in quella eterna” 15.
Il capo di questo corpo mistico sarà sempre Cristo Gesù. Nel corso della Storia dell’umanità, Egli sarà il capo invisibile, ma lascia tra noi un Pietro accessibile, il “dolce Cristo sulla Terra” (espressione usata da Santa Caterina da Siena) che tutti dobbiamo amare come un buon padre, obbedire persino alle sue più lievi insinuazioni e consigli, onorare come un supremo monarca, re dei re.
III – Nasce un’opera indistrutti bile
Desta meraviglia lo svolgersi di questo avvenimento storico avvenuto nella “regione di Cesarea di Filippo”. Un semplice pescatore della Betsaida proclama che il figlio di un falegname è realmente Figlio di Dio, per natura. Costui, successivamente, annuncia che edificherà un’opera indistruttibile e lascerà nelle mani del suo amministratore, con pieni poteri di giurisdizione e magistero, “le chiavi del Regno del Cielo”. L’ambiente che li circonda è povero, arido ma ha una sua grandezza. Lì è piantato “il chicco di senape”, dal quale nasceranno le chiese, le cerimonie, le università, i martiri, dottori e santi, insomma la Santa Chiesa Cattolica Apostolica e Romana.
Sono trascorsi due millenni e, dopo tante e catastrofiche tempeste, questa “nave di Pietro” continua incrollabile, avendo Cristo, con potere assoluto, al suo centro. Nessun’altra istituzione ha resistito alla corruzione prodotta dalle deviazioni morali o dalla perversione della ragione e dell’egoismo umano. Soltanto la Chiesa ha saputo affrontare le teorie caotiche, opponendo loro la verità eterna; raffreddare l’egoismo, la violenza e la voluttà, utilizzando le armi della carità, giustizia e santità; pervadere e riformare i poteri dispotici e materialisti di questo mondo, con la solenne e disarmata influenza di una saggia, serena e materna autorità.
Non potevano mani meramente umane erigere un’opera tanto portentosa, solo la virtù stessa di Dio poteva essere capace di conferire santità ed elevare alla gloria eterna uomini concepiti nel peccato.
1 CORRÊA DE OLIVEIRA, Plinio. A Guerra e o Corpo Místico, in “O Legionário”, del 16/4/1944.
2 AQUINO, San Tommaso de. Catena Aurea.
3 CRISÓSTOMO, San Giovanni.
Omelia 54 sul Vangelo di San Matteo, § 1.
4 MALDONADO, SJ, P. Juan de.
Comentario a los cuatro Evangelios.
Madrid: BAC, 1950, vol. I, pag. 579.
5 Cfr. CRISOSTOMO. Op. cit. § 1.
6 Cfr. CRISOSTOMO. Idem ibidem.
7 MALDONADO, Op. cit. pag.
580.
8 CRISOSTOMO. Op. Cit. § 3.
9 Si veda il suo potere di perdonare i peccati, in Mt 9, 6; la sua superiorità sul Tempio, in Mt 12, 6; il sospetto sul suo carattere messianico, in Mt 12, 23; ecc.
10 ILARIO DE POITIERS, San, In Evangelium Matthaei Commentarius, cap.XVI.
11 Apud AQUINO. Catena Aurea.
12 MALDONADO. Op. cit.
pag.584.
13 BONAVENTURA, San. La perfezione evangelica, cap. 4 a. 3 concl.
in Obras de San Buenaventura.
Madrid: BAC, 1949, t. 6, pag. 309.
14 CIPRIANO, San. De unitate ecclessia, § 4.
15 GOMÁ Y TOMÁS, Dr. D. Isidro.
El Evangelio Explicado. Barcelona: Ediciones Acervo, 1967, vol.II, pag.38.
(Revista Araldi Del Vangelo, Giugno/2008, n. 62, p. 12 à 19)
L’Apostolo dei Gentili
Né la vita né la morte potevano separare Paolo dall’amore di Cristo. Per questo, mille anni dopo l’inizio della sua peregrinazione terrena, la monumentale opera dell’Apostolo dei Gentili si mantiene viva e continua a produrre abbondanti frutti per la Chiesa.
Clara Isabel Morazzani Arráiz
La vocazione è un dono concesso liberamente da Dio e, a volte, il Signore si compiace nel chiamare qualcuno apparentemente contrario alla missione alla quale Egli lo destina, al fine di manifestare con maggior fulgore il potere della Sua Grazia e la gratuità del Suo richiamo. In questi casi, nonostante gli apparenti paradossi e a prescindere dalla consapevolezza del diretto interessato, le cui aspirazioni sembrano entrare in conflitto con i disegni Divini, il Signore prepara il cammino, servendoSi perfino degli stessi ostacoli per far compiere la sua Santa Volontà.
Giovane fariseo di Tarso
Nulla sembrava indicare che quel giovinetto dal volto vivo e intelligente, di nome Saulo, si trasformasse in un intrepido difensore di Gesù Cristo. Nato a Tarso, in Cilicia, in seno a una famiglia ebrea, il piccolo Saulo fu soggetto, molto presto, a due forti influenze che avrebbero pesato enormemente sulla formazione del suo carattere. Da un lato, le convinzioni religiose che apprese dai suoi genitori non tardarono a fare di lui un autentico fariseo, attaccato alle tradizioni, desideroso dell’arrivo di un Messia vittorioso e liberatore del popolo eletto, allora sottomesso al giogo straniero e zelante osservante della Legge fino alle sue minime prescrizioni.
Dall’altro lato, l’ambiente della sua città natale marcò profondamente la personalità del giovane fariseo. Tarso – metropoli greca suddita dell’Impero Romano – divenne, per la sua localizzazione privilegiata, uno dei centri di commercio più importanti di quel tempo. Era un crogiolo di popoli provenienti dalle nazioni più diverse, le cui lingue e costumi si mescolavano sotto il fattore preponderante della cultura ellenica. La Provvidenza cominciava a preparare il giovane fariseo alla sua futura missione di Apostolo dei Gentili.
Discepolo di Gamaliele
Poco più che adolescente, Saulo abbandonò la sua patria per installarsi nella città-culla della religione dei suoi antenati: Gerusalemme. Lì, divenne assiduo studioso delle Scritture, istruito dal dotto Gamaliele, uno dei più noti membri del Sinedrio. Anche qui possiamo notare la mano di Dio che interviene nella sua vita, poiché la conoscenza dei Libri Sacri, che acquisì durante quegli anni, gli sarebbe servita più tardi per aprire i suoi orizzonti rispetto alla realtà messianica di Gesù Cristo.
Il giovane fariseo si sentiva a disagio: le parole di Stefano erano talmente ispirate e convincenti, che non gli si poteva resistere “”Martirio di Santo Stefano” – Juan de Juanes – Museo del Prado, Madrid |
Nel frattempo, se Saulo progrediva a passi rapidi nelle dottrine farisaiche, sotto lo sguardo vigilante di Gamaliele, in nulla sembrò assimilare la prudenza che caratterizzava il suo maestro, sempre cauto nei suoi giudizi e moderato negli apprezzamenti. Al contrario, il giovane alunno mostrava un esaltato fanatismo religioso, come egli stesso avrebbe confessato nella sua lettera ai Galati: “Superavo nel giudaismo la maggior parte dei miei coetanei e connazionali, accanito com’ero nel sostenere le tradizioni dei padri” (Gal 1,14) Tra i discepoli di Gamaliele batteva un cuore sincero, alla ricerca della verità.
Egli la cercava ardentemente, desideroso di raggiungere la sua piena conoscenza. Non sapeva che il fine di questi suoi desideri si trovava in Colui che, di Se stesso, aveva detto: “Io sono la Via, la Verità e la Vita, nessuno viene al Padre se non per mezzo di Me” (Gv 14,6) Sì, Saulo non poteva arrivare al Padre, Suprema Verità, senza passare per Gesù, il Mediatore tra Dio e gli uomini. L’affermazione proferita dal Signore, momenti prima della Sua Passione, egli l’avrebbe vista compiersi nella sua vita, anche se contro la sua volontà e nonostante le sue riluttanze. Le convinzioni di Saulo, in urto di fronte al Cristianesimo che sorgeva, si erano convertite in odio profondo contro questo.
Incontro di Saulo con il Cristianesimo
Saulo aveva trascorso fuori Gerusalemme alcuni anni, che coincisero conil periodo della vita pubblica di Gesù. Quando tornò, verificò un grande cambiamento. La Città Santa non era la stessa che aveva conosciuto quando era studente: dopo la tragedia della Passione, pesava sulla coscienza del popolo e soprattutto delle autorità, l’immagine insanguinata della Vittima del Golgota, che essi invano cercavano di gettare nell’oblio. Inoltre i discepoli di quell’Uomo non avevano paura di predicare la loro dottrina nello stesso Tempio, proclamando che questo Gesù, che avevano ucciso, era resuscitato dai morti (cfr. At 3, 11 e segg.).
Tali avvenimenti non potevano lasciare indifferente un fariseo convinto come Saulo. Non comprendeva come quei semplici galilei si alzassero impunemente contro la religione dei suoi antenati, trascinando dietro di loro una sì grande moltitudine di seguaci. La sua irritazione arrivò al culmine quando, stando nella sinagoga detta dei Liberti, dove settimanalmente si riunivano giudei di tutte le comunità della Diaspora, si imbatté su di un giovane chiamato Stefano, mentre annunciava impavidamente la lieta novella.
Poco più tardi, essendo stato presentato Stefano al tribunale del Grande Consiglio, Saulo ascoltò attentamente il lungo discorso in cui costui dimostrò, con esempi storici e di profezie, che Gesù era il Messia atteso. Il giovane fariseo si sentiva a disagio: le parole di Stefano erano talmente ispirate e convincenti, che non gli si poteva resistere (cfr. At 6, 10), d’altro canto, la figura di questo Gesù Nazareno, che egli non aveva conosciuto, sembrava perseguitarlo e costantemente si vedeva obbligato a sentir parlare al riguardo, in tal modo i suoi adepti erano disseminati per Gerusalemme.
Duro era per lui ricalcitrare contro il pungolo (cfr. At 26, 14). E, intanto, Saulo recalcitrava! Indignato di fronte al coraggio di Stefano, approvò entusiasticamente la sua morte (cfr. At 8, 1) e considerò come un onore la missione di custodire i mantelli dei lapidatori, visto che la sua età non gli permetteva di sollevare la mano contro il condannato.
Sorge il persecutore dei cristiani
A partire da quel giorno, l’esaltato discepolo di Gamaliele non pose più freno alla sua furia. Credendo “che aveva il dovere di lavorare attivamente contro il nome di Gesù il Nazareno” (At 26, 9), entrava nelle case dei fedeli per mettere uomini e donne in prigione (cfr. At 8, 3); arrivava a maltrattarli per obbligarli a bestemmiare (cfr. At 26, 11). Non contento di devastare soltanto la Chiesa di Gerusalemme, andò a presentarsi al principe dei sacerdoti, chiedendogli lettere per le sinagoghe di Damasco, al fine di catturare, in questa città, tutti coloro che si proclamassero seguaci della nuova dottrina (cfr. At 9, 2). Ma, questo Gesù che egli si ostinava a perseguitare (At 9, 5), si sarebbe posto di nuovo sul suo cammino, questa volta in modo definitivo ed efficace.
Sulla via di Damasco
Possiamo immaginare l’ansia del giovane Saulo nell’avvicinarsi a Damasco, pregustando l’ora di saziare la sua collera nel compimento della missione che si era proposto. Ma ecco che, all’improvviso, una luce folgorante proveniente dal cielo lo avvolse insieme ai suoi compagni, derubandolo del cavallo. Lì, caduto a terra e accecato dallo splendore dei raggi divini, l’orgoglioso fariseo non poté più resistere al potere di Cristo e si dichiarò vinto: “Signore, che vuoi che io faccia?” (At 9, 6). Da persecutore qual era pochi istanti prima, diveniva servo fedele, pronto ad obbedire ai comandi del Messia. Quanta gloria per il Crocifisso! Con un semplice tocco della sua grazia, aveva trasformato in Suo Apostolo uno dei più ferventi discepoli di coloro che erano stati i suoi principali avversari, durante la vita pubblica.
L’orgoglioso fariseo non poté più resistere al potere di Cristo e si dichiarò vinto: “Signore, che vuoi che io faccia?” “La conversione di San Paolo”, di Murilo – Museo del Prado, Madrid |
Aiutato dai suoi compagni, Saulo si rizzò in piedi, ma più che sollevarsi dal suolo, sorse nella sua anima “l’uomo nuovo, creato secondo Dio nella giustizia e nella santità vera” (Ef 4, 24). Il blasfemo di una volta sarebbe rimasto per sempre prostrato in un amoroso riconoscimento della sua sconfitta: “Cristo Gesù è venuto nel mondo per salvare i peccatori e di questi il primo sono io. Ma appunto per questo ho ottenuto misericordia, perché Gesù Cristo ha voluto dimostrare in me, per primo, tutta la sua magnanimità, a esempio di quanti avrebbero creduto in lui per avere la vita eterna” (I Tm 1, 15-16).
Saulo si converte in Paolo
Con la stessa radicalità con cui prima si era votato al giudaismo, Saulo abbracciava ora la Chiesa di Cristo. La grazia aveva rispettato la natura, conservando le caratteristiche proprie della sua personalità che avrebbero più tardi contribuito alla formazione della scuola paolina di vita spirituale. A partire da questo momento, il Saulo convertito, il nuovo Paolo, si sarebbe mosso soltanto per un unico ideale, che prendeva tutte le fibre della sua anima e dava un senso vero alla sua esistenza: “Quanto a me invece non ci sia altro vanto che nella croce del Signore nostro Gesù Cristo, per mezzo della quale il mondo per me è stato crocifisso, come io per il mondo” (Gal 6, 14).
D’ora in poi questa Croce – nella quale Paolo non solo considerava le sofferenze del Salvatore, ma vedeva, soprattutto, lo splendore della Resurrezione – sarebbe stata per lui la direzione della sua vita, la luce dei suoi passi, la forza della sua virtù, il suo unico motivo di gloria. Questo amore, che in un istante aveva operato la sua trasformazione, lo spingeva ora a parlare, a predicare, a percorrere i confini del mondo allo scopo di conquistare anime a Cristo, strappandogli, dal fondo del cuore, questo gemito: “Guai a me se non predicassi il vangelo!” (I Cor 9, 16).
Per questo amore era disposto ad affrontare tutte le tribolazioni, a sopportare i peggiori tormenti, sia di ordine naturale, che di ordine morale: “Spesso sono stato in pericolo di morte. Cinque volte dai Giudei ho ricevuto i trentanove colpi; tre volte sono stato battuto con le verghe, una volta sono stato lapidato, tre volte ho fatto naufragio, ho trascorso un giorno e una notte in balìa delle onde. Viaggi innumerevoli, pericoli di fiumi, pericoli di briganti, pericoli dai miei connazionali, pericoli dai pagani, pericoli nella città, pericoli nel deserto, pericoli sul mare, pericoli da parte di falsi fratelli; fatica e travaglio, veglie senza numero, fame e sete, frequenti digiuni, freddo e nudità. E oltre a tutto questo, il mio assillo quotidiano, la preoccupazione per tutte le Chiese!” (IICor 11, 23-28).
Egli si era proposto, innanzitutto, la glorificazione di Gesù Cristo e della Sua Chiesa e questo costituiva per lui il succo essenziale, il punto di riferimento della sua vita. A questo riguardo commenta San Giovanni Crisostomo: “Ogni giorno egli saliva più in alto e diventava più ardente, ogni giorno lottava con energia sempre nuova contro i pericoli che lo minacciavano. […] Realmente, in mezzo alle insidie dei nemici riportava continue vittorie, trionfando in tutti i suoi assalti. E dappertutto, flagellato, coperto di ingiurie e maledizioni, come se sfilasse in un corteo trionfale, ergendo numerosi trofei, si gloriava e rendeva grazie a Dio, dicendo: ‘Siano rese grazie a Dio, il quale ci fa partecipare al suo trionfo in Cristo’ (II Cor 2, 14)”.
Apostolo dei Gentili
Così, a poco a poco, con i suoi viaggi apostolici e le numerose lettere attraverso cui sosteneva nella fede i suoi figli spirituali, Paolo andava fissando i fondamenti della Sposa Mistica di Cristo. Neanche all’interno gli dovevano mancare avversari: a volte, tra gli stessi cristiani sorgevano concetti erronei, come quello di voler obbligare i pagani convertiti a praticare i costumi della Legge Mosaica.
A questo riguardo Paolo portò la sua audacia fino al punto da discutere con lo stesso apostolo Pietro, “opponendosi a lui a viso aperto perché evi dentemente aveva torto” (Gal 2, 11). Pietro accettò con umiltà il punto di vista di Paolo e si affrettò a metterlo in pratica, ma i cristiani che avevano sparso le sue idee per le Chiese della Galazia non lo imitarono, adducendo come giustificazione il fatto che essi compivano strettamente la Legge. Nulla avrebbe potuto essere tanto nocivo per la Chiesa nascente quanto tali errori e Paolo lo capì subito. Decise di lasciare per iscritto tutta la dottrina su questo punto, con tanta sicurezza e chiarezza da far dedurre che l’abbia ricevuta dalle labbra dello stesso Gesù.
La lettera diretta ai Galati è uno scritto polemico, senza timore di presentare la verità così com’ è: “O stolti Galati, chi mai vi ha ammaliati, proprio voi agli occhi dei quali fu rappresentato al vivo Gesù Cristo crocifisso? […] Quelli invece che si richiamano alle opere della legge, stanno sotto la maledizione” (Gal 3, 1. 10). Poco prima aveva affermato: “Abbiamo creduto anche noi in Gesù Cristo per essere giustificati dalla fede in Cristo e non dalle opere della legge” (Gal 2, 16).
San Paolo e i greci
Se Paolo ebbe da affrontare opposizioni all’interno del suo stesso popolo, si vide anche contestato dai greci, che presentavano obiezioni di tenore completamente differente, ma che non erano meno pericolose. La Grecia, principale centro della cultura di quei tempi, era orgogliosa della fama dei suoi pensatori e di essere la culla della filosofia. Ora, la parola e la predicazione sostenute da Paolo, “non si basavano su discorsi persuasivi di sapienza” (I Cor 2, 4), come egli stesso affermava.
Non poche volte diventava bersaglio del disprezzo o oggetto di vergogna per i convertiti. Egli non si preoccupava delle offese fatte alla sua persona, ma temeva che i suoi discepoli facessero eco a idee così vane o venissero a soccombere, per paura delle umiliazioni. Per questo, egli scriveva ai fedeli di Corinto, città ove principalmente queste false dottrine avevano trovato spazio: “La parola della croce infatti è stoltezza per quelli cha vanno in perdizione, ma per quelli che si salvano, per noi, è potenza di Dio” (I Cor 1, 18).
Non era questo, tuttavia, il peggiore degli ostacoli incontrati da Paolo in Grecia. Sprofondati nella dissolutezza e nel disordine morale, i greci avevano elaborato, nel corso dei tempi, una giustificazione per i loro cattivi costumi, negando la resurrezione dei morti. Alcuni addirittura, come Epicuro di Samo (†270 a.C.), erano giunti ad affermare che l’anima umana è materiale e mortale. Nello stesso Vangelo percepiamo delle scintille di questa incandescente tematica quando i sadducei – che, su influenza ellenica, non credevano nella resurrezione – si approssimarono a Gesù per metterlo alla prova, rivolgendoGli una domanda capziosa (cfr. Lc 20, 27-39). La discussione, come vediamo, veniva da lontano e si ergeva come principale ostacolo allo sviluppo dell’apostolato paolino.
Forse Paolo, ai tempi del suo fervore farisaico, aveva già dovuto affrontare gli stessi sadducei a questo proposito. Ora, però, come cristiano, possedeva l’argomento della Resurrezione di Cristo e contava sul poderoso aiuto della grazia.
Grande Apostolo della Resurrezione
I dubbi esposti dai greci, quando non l’opposizione aperta, gli servivano da stimolo per approfondirsi di più nella dottrina della resurrezione e lasciarla esplicitata per i secoli futuri. Così egli scrisse ai Corinzi: “Ora, se si predica che Cristo è risuscitato dai morti, come possono dire alcuni tra voi che non esiste risurrezione dei morti? Se non esiste risurrezione dai morti, neanche Cristo è risuscitato! Ma se Cristo non è risuscitato, allora è vana la nostra predicazione ed è vana anche la vostra fede. […] Se poi noi abbiamo avuto speranza in Cristo soltanto in questa vita, siamo da compiangere più di tutti gli uomini. Ora, invece, Cristo è risuscitato dai morti, primizia di coloro che sono morti” (I Cor 15, 12-14; 19-20). Costava, a quei greci dalla vita sregolata, dover assimilare questi principi.
Accettando la resurrezione della carne, si sarebbero visti forzosamente invitati ad un mutamento dei costumi e ad abbracciare un modo di pensare e di comportarsi confacente a questa speranza. Anche la loro riluttanza avrebbe contribuito al bene, come afferma lo stesso San Paolo: “Oportet et haereses inter vos esse” (I Cor 11, 19) – è necessario che vi siano fazioni, o eresie, tra di voi. Spinto dalle circostanze, Paolo si trasforma nel grande Apostolo della Resurrezione.
Agnello e leone allo stesso tempo
Non tutto però era lotta per l’instancabile Paolo. Se di fronte all’errore e alla mancanza di fede egli mostrava tutto il suo ardore combattivo e la sua intransigenza, in relazione ai buoni lasciava intravvedere un fondo d’animo estremamente affettuoso e compassionevole, ordinato secondo la carità di Cristo. In questa ammirevole coniugazione di virtù, all’apparenza opposte, Paolo assomigliava al Gesù, sempre disposto a perdonare o pronto a riprendere, ad essere Agnello e Leone allo stesso tempo. In una sua lettera ai fedeli di Filippi, che si preoccupavano per le loro sofferenze e le loro necessità, così scrive: “Infatti Dio mi è testimonio del profondo affetto che ho per tutti voi nell’amore di Cristo Gesù!” (Fil 1, 8). Ed ancora, agli stessi Galati, contro cui prima aveva fatto un’invettiva a proposito delle loro deviazioni, scriveva più avanti: “Figlioli miei, che io di nuovo partorisco nel dolore finché non sia formato Cristo in voi (Gal 4, 19).
Ammanettato, Paolo è portato da Gerusalemme a Roma. Durante il viaggio, Paolo non perde l’opportunità di annunciare il Vangelo in tutti i luoghi del suo passaggio. |
San Paolo, secondo Bossuet
È difficile esaltare le virtù dell’Apostolo dei Gentili in uno spazio così esi guo. La pluralità strabiliante dei suoi fatti, il potere della sua voce e la portata della sua azione apostolica, i cui frutti anche oggi alimentano la Chiesa, lasciano nell’imbarazzo qualsiasi scrittore.
Per questo ricorriamo all’incomparabile eloquenza di Bossuet, che così ha descritto l’impeto della predicazione dell’Apostolo: “Quest’uomo, ignorante nell’arte del parlare bene, dalla locuzione rude e dall’accento straniero, giungerà alla raffinata Grecia, madre di filosofi e oratori e, nonostante la resistenza mondana, fonderà più chiese di quanti discepoli ha avuto Platone. Predicherà Gesù ad Atene, ed il più saggio degli oratori passerà dall’Areopago alla scuola di questo barbaro. Continuerà ancora nelle sue conquiste e abbatterà ai piedi del Signore la maestà delle aquile romane nella persona di un proconsole,e farà tremare nei suoi tribunali i giudici davanti ai quali sarà citato. Roma ascolterà la sua voce e un giorno quella vecchia maestra si sentirà più onorata per una sola lettera dallo stile barbaro di San Paolo, diretta ai suoi cittadini, che per tutte le famose arringhe di Cicerone, ascoltate in altri tempi”.
La prigione a Gerusalemme
Sì, Roma avrebbe dovuto ascoltare la sua predicazione e le sue vie lastricate di grandi pietre sarebbero state calpestate dai piedi dell’Apostolo. Questi piedi, intanto, avrebbero trascinato pesanti catene che gli avrebbero tolto la libertà dei movimenti. Accusato dall’odio dei suoi concittadini, a causa della sua fedeltà a Cristo, Paolo era stato consegnato alla giustizia romana.
Se il suo corpo sopportava le catene e i ceppi, la sua anima sentiva pesare su di sé il soave giogo di Cristo. Prigioniero dello Spirito (cfr. At 20, 22), Paolo aveva ricevuto, una notte, questa rivelazione: “Coraggio! Come hai testimoniato per me a Gerusalemme, così è necessario che tu mi renda testimonianza anche a Roma” (At 23, 11). Obbediente all’ispirazione ricevuta, Paolo esclamerà nel tribunale del governatore Festo: “Mi trovo davanti al tribunale di Cesare, qui mi si deve giudicare. […]Io mi appello a Cesare!” (At 25, 10-11). Volendo disfarsi del caso così complicato, che coinvolgeva questioni della religione giudaica, Festo si affrettò a soddisfare il desiderio del prigioniero, mandandolo a Roma, ammanettato e sotto la custodia del centurione Giulio.
Il primo periodo di predicazione a Roma
Durante il viaggio, Paolo non perdeva l’opportunità di annunciare il Vangelo in tutti i luoghi dove passava. Dopo varie difficoltà lungo la traversata e dopo aver affrontato un naufragio, fece scalo a Siracusa, in Sicilia, e da lì fu condotto a Reggio ( At 28, 12-13). Una volta giunto alla capitale dell’Impero e posto in prigione domiciliare, Paolo realizzava un desiderio che da tempo covava nel cuore, come egli stesso lo espresse ai cristiani di Roma: “Sono quindi pronto, per quanto sta in me, a predicare il vangelo anche a voi di Roma” (Rm 1, 15).
Due anni sarebbe dovuta durare la sua prigionia, ma egli, come afferma San Giovanni Crisostomo, “considerava come un gioco da ragazzi i mille supplizi, i tormenti e la stessa morte, purché potesse soffrire qualcosa per Cristo”. Approfittò del tempo per predicare il Regno di Dio ( At 28, 31), scrivere numerose lettere alle comunità della Grecia e dell’Asia, le cosiddette Lettere della prigionia. La Provvidenza chiedeva al suo Apostolo ancora altri anni di abnegazione e fatiche, a lui che sospirava la morte, considerandola un profitto per giungere a Cristo (Fil 1, 21).
Il sublime imitatore di Gesù Cristo compie dà testimonianza col proprio sangue. “Martirio di San Paolo” – Parrocchia di Maroggia |
Nuovi viaggi e ritorno alla capitale dell’Impero
Liberato per un decreto giuridico, Paolo avrebbe ancora visitato Creta, la Spagna e nuovamente le note chiese dell’Asia Minore, alle quali tanto si era dedicato. Infine sarebbe tornato a Roma dove si sentiva attratto, forse per un segreto presentimento della prossimità della “corona della giustizia” (II Tm 4, 8) che lì lo aspettava. Sul trono dei cesari si sedeva allora il terribile Nerone, la cui crudeltà, a fianco di un orgoglio patologico, già aveva contribuito alla sua fama. Noto era l’odio che votava contro i cristiani, e Paolo non passò inosservato alla perspicacia delle spie del tiranno.
Accusato di essere capo della setta, fu catturato dalla milizia imperiale e gettato nel Carcere Mamertino dove, secondo un’antica tradizione, già si trovava Pietro. In questo oscuro sotterraneo, dalle strette dimensioni e dal soffitto basso, il Pontefice della Chiesa di Cristo e l’Apostolo dei Gentili rimasero incatenati ad una stessa colonna. Così, uniti in un’unica fede e speranza, stavano entrambi avvinti dalle catene dell’amore alla Roccia, che è Cristo ( I Cor 10, 4).
Il martirio di San Paolo
Giunse infine il giorno in cui Paolo avrebbe dovuto “essere immolato” (II Tm 4, 6). Per lui la morte significava poco, si riteneva già morto per il peccato e vivo per Dio ( Rm 6, 11). Un’intima ed esclusiva unione lo legava al suo Signore. Non era lui stesso che viveva, ma Cristo che in lui abitava ( Gal 2, 20) e operava.
Condannato all’amore, Paolo, per il fatto di essere un cittadino roma no, non poteva, come Pietro, soffrire la pena ignominiosa della crocifissione, ma quella della decapitazione, che doveva avvenire fuori della città. Condotto da un gruppo di soldati, l’Apostolo trascinò i suoi pesanti ceppi lungo la via Ostiense e la Via Laurentina, fino a raggiungere una distante vallata, nota col nome di Aquæ Salviae. Lì, in quella regione paludosa, il sublime imitatore di Cristo sigillava il suo testamento col proprio sangue.
La sua testa, nel cadere al suolo sotto il colpo fatale della spada, saltò tre volte, facendo sgorgare in ognuno dei tre punti una fonte di acqua zampillante. Questo fatto, se non comprovato dalla Storia, si basa su una pietosa tradizione confermata dal nome di Tre Fontane, nome del monastero trappista costruito in quel luogo.
“Ha combattuto la giusta lotta”
Paolo era morto, ma la sua monumentale opera apostolica, fondata sulla carità che aveva consumato la sua vita, continuava ad essere viva e avrebbe prodotto abbondanti frutti per la Chiesa. Fino all’ultimo respiro, la sua vita non era stata se non una grande lotta. Lotta di entusiasmo e di dedizione, di altruismo e di eroismo, lotta per portare il Vangelo a tutte le genti, confidando sempre nella benevolenza di Cristo.
I peggiori marosi della vita non riuscirono ad intaccare il suo tabernacolo interiore. La sua fermezza, simile all’immobilità di una roccia battuta dalle onde del mare, si manteneva inalterabile nelle maggiori angustie e agonie, certo che né la vita né la morte lo avrebbero potuto separare dall’amore di Cristo ( Rm 8, 38-39). Una volta conclusa la lotta, percorsa tutta la sua carriera e giunto al termine della sua peregrinazione terrena ( II Tm 4, 7), l’Apostolo apparve allo sguardo ammirato dell’umanità, in tutta la sua statura di gigante della fede, trasmettendo per i secoli futuri questo messaggio: “. Queste dunque le tre cose che rimangono: la fede, la speranza e la carità; ma di tutte più grande è la carità. La carità non avrà mai fine!” (I Cor 13, 13.8).
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