In Libano, i cui maestosi cedri e mitiche montagne sono stati tante volte lodati dalla Sacra Scrittura, ha brillato, in pieno secolo XIX, uno dei maggiori anacoreti della storia della Chiesa.

Fin dai primordi del Cristianesimo, sono brillati nel firmamento della Chiesa uomini e donne di preghiera che trascorrevano la vita nella contemplazione e nel silenzio, assorti solamente in Dio. Spogliatisi completamente delle preoccupazioni terrene, tenevano l’anima fissa ad un unico fine: vacare Deo – riposare in Dio, darsi a Dio.

Retrocediamo di quasi due secoli e viaggiamo, in cerca di una di queste anime, in un paese dai monti impervi le cui meraviglie furono innumerevoli volte proclamate nei Libri Sacri: il Libano. Lì, nel 1828, nel villaggio di Beqaa Kafra, nacque all’ombra dei cedri centenari il piccolo Youssef Makhlouf.

Dio comincia a parlargli al cuore

Nei teneri anni della sua infanzia, morì suo padre, Antun Za’rur Makhlouf, sottoposto dall’esercito ottomano a un regime di lavori forzati. Sua madre, Brigida, contrasse nuove nozze, lasciando la casa e le piccole proprietà di Antun ai figli, che passarono sotto la tutela dello zio paterno, Tannus.

Incline alla pietà e alla devozione, toccò al piccolo Youssef, sebbene fosse l’ultimogenito di cinque fratelli, a dare loro il buon esempio nella pietà e nel compimento dei doveri. Dotato di uno spirito pietoso e altamente sottomesso, recitava quotidianamente le preghiere con la famiglia, come pure assolveva con grande cura al compito di vigilare gli animali al pascolo.

Le sue virtù divennero subito note a tutti gli abitanti del villaggio. Amava la solitudine, era saggio e intelligente. In Chiesa, si manteneva in raccoglimento, senza mai guardarsi intorno. Il suo buon comportamento richiamava così tanto l’attenzione che i ragazzi del posto si riferivano a lui denominandolo “il Santo”.

A poco a poco la Provvidenza preparò l’anima di questo suo figlio eletto a tal punto che, vivendo ancora nel mondo, lo utilizzava soltanto per compiere quella che era l’unica aspirazione della sua vita. “Quando Dio vuole unirsi intimamente a un uomo e parlargli al cuore, Egli lo conduce alla solitudine.

Se si tratta di un uomo chiamato alla vita religiosa contemplativa, Dio, per realizzare il suo desiderio, comincia col separarlo dal mondo”.1 Fu così che, nell’anno 1851, a 23 anni, Youssef lasciò la casa materna e entrò nel Monastero della Madonna, a Maifouk, dove adottò il nome di Charbel, in lode al martire di Edessa, del secondo secolo.

Da Maifouk a San Maron de Annaya

Però, considerato il desiderio di isolarsi dal mondo che ardeva nella sua anima, Maïfuq certamente non si trovava nell’ambiente più propizio per la realizzazione del suo ideale. Nonostante conducesse una vita di orazione e lavoro, come la santa Regola prescriveva, il contatto con i contadini vicini gli pregiudicava molto il raccoglimento.

Un giorno in cui i novizi si stavano occupando del loro compito quotidiano di togliere le foglie e le bucce dai gelsi, per la creazione del baco da seta, una ragazzina che lavorava al suo fianco, volendo mettere alla prova il silenzio e la serietà di Charbel, gli lanciò sul volto un bozzolo. Non ottenendo alcun risultato, ne lanciò un altro. Il giovane novizio rimase impassibile, ma quella stessa notte uscì dal monastero di Maifouk, senza dir nulla a nessuno, e andò a ritirarsi nel convento de San Maron de Annaya, situato a quattro ore di marcia.

Lì iniziò il noviziato, separato dal mondo da una severa clausura, osservando la regola che lo guidava nelle vie della contemplazione, del raccoglimento, dell’orazione e dell’obbedienza. Due anni dopo ricevette l’abito dei maroniti – tunica nera, cappuccio a forma di cono e cordone fatto di pelle di capra – e pronunciò i voti di povertà, castità e obbedienza. Da allora, fu un monaco immerso nell’anonimato e nei suoi colloqui con Dio.

Malgrado facesse di tutto per far dimenticare la sua persona, la sua santità diventò famosa agli altri religiosi. Per decisione del superiore e del consiglio della comunità, fu ammesso agli ordini sacri e, dopo aver fatto gli studi necessari, ricevette l’ordinazione presbiterale nel 1859.

Charbel celebrava il Santo Sacrificio con la massima dignità e con una fede talmente viva che, con

frequenza, durante la Consacrazione, le lacrime gli scendevano dagli occhi scuri e profondi, che erano come due finestre aperte verso il Cielo. Nella contemplazione, restava così profondamente assorto che non prestava attenzione alcuna a eventuali rumori o brusii.

Modello di obbedienza e purezza

Dal tempo del noviziato fino al suo ultimo respiro, si distinse come monaco esemplare nell’obbedienza e nell’osservanza della Regola al punto che, quando il Superiore ordinava a un monaco di fare qualcosa di molto penoso, era frequente sentire una risposta del tipo: – Lei pensa, per caso, che io sia padre Charbel? Una volta, quando era ancora novizio, un sacerdote decise di mettere alla prova la sua pazienza.

Al momento di trasportare da un campo all’altro gli attrezzi agricoli, cominciò ad ammucchiare sulle sue spalle sacchi di sementi, pezzi di aratri, ferramenta ed altri materiali… Quando terminò, si vedeva in mezzo al carico il volto sorridente di Charbel che ripeteva la censura di Gesù ai dottori della Legge: “Guai a voi, dottori della legge, che caricate gli uomini di pesi insopportabili, e quei pesi voi non li toccate nemmeno con un dito!” (Lc 11, 46). Tutti risero di questa citazione spiritosa e si affrettarono a liberarlo dall’eccesso del carico.

Ha brillato anche in modo speciale nella lotta per preservare la virtù della castità, con atti di eroismo estremi, senza mai mostrare agli altri le mortificazioni a cui si sottoponeva. La Regola dell’ Ordine incita i monaci a tenere a freno con tutto l’impegno i propri sensi.

Tra le altre attitudini di vigilanza, li esorta a evitare qualsiasi conversazione con persone di sesso femminile, anche se si tratta di parenti. San Charbel andò ancora più in là: egli fece, e compì, il proposito di non guardare mai il volto di una donna.

Il dono di fare miracoli

Ebbe il dono di fare miracoli, che esercitò con la sua solita umiltà. Una volta, una povera donna emorroissa, la cui infermità resisteva a tutti i trattamenti, incaricò un messaggero di consegnare a padre Charbel una determinata quantità di denaro e di chiedergli che le inviasse una cintura benedetta. Vi è una devozione mariana tipica del Libano: nelle situazioni di emergenza – calamità pubbliche, epidemie, guerre, ecc.

-, i capifamiglia portano in Chiesa un velo di seta o cotone; questi veli sono intrecciati e restano sospesi sulla volta della cappella, fino a che la Vergine fa cessare la disgrazia. Padre Charbel prese uno di questi veli, che stava presso la statua della Madonna del Rosario e lo consegnò al messaggero, dicendo: – Che la donna si cinga con questo velo, e sarà guarita. Quanto alla elemosina, la metta sopra l’altare, il padre amministratore provvederà a ritirarla.
E la donna guarì.

Nella chiesetta di San Pietro e San Paolo

Visto che la solitudine lo attirava fin dall’infanzia e che nel monastero di Annaya viveva ormai praticamente come un anacoreta, fu trasferito alla chiesetta dei Santi Pietro e Paolo, a poca distanza dal monastero. Aveva allora 47 anni e vi rimase fino al giorno della sua morte, avvenuta 23 anni dopo. Qui, la sua orazione era interrotta soltanto dalla coltivazione della vigna e da altri lavori nella chiesetta. L’unica refezione quotidiana, verso le tre del pomeriggio, finiva per essere un esercizio di penitenza, per l’esiguità e povertà del cibo.

La sua devozione a Maria era incomparabile. Ripeteva continuamente il Suo nome benedetto, e ogni volta che entrava o usciva dalla sua cella recitava, in ginocchio, l’Ave Maria davanti a una piccola statua. Proverbiale fu anche la sua pace d’animo. In un giorno di temporale, un fulmine demolì parte dell’ala meridionale della chiesetta, buttò a terra una parete della vigna e bruciò, nella cappella, la tovaglia dell’altare, mentre il santo monaco vi era raccolto in preghiera.

Due eremiti accorsero sul posto, e lo videro nella più imperturbabile tranquillità. – Padre Charbel, perché non si è mosso per spegnere il fuoco? – Caro fratello, come avrei potuto farlo? Subito dopo che si è attizzato, il fuoco si è estinto… Infatti, siccome l’incendio era stato rapidissimo, egli aveva ritenuto più importante continuare la sua preghiera, senza scomporsi.

Nascita per la vita eterna

Mentre celebrava la Messa il 16 dicembre del 1898, nel momento in cui comunicava il Preziosissimo Sangue del Signore Gesù, un improvviso attacco di apoplessia lo lasciò paralizzato, senza poter concludere il Santo Sacrificio. Soccorso immediatamente, fu portato nella sua povera cella, dove rimase otto giorni tra la vita e la morte, con intervalli di lucidità durante i quali recitava brevi orazioni.

Alla vigilia di Natale, mentre la Chiesa commemorava la venuta al mondo del Bambino Gesù, nacque per l’eternità quel santo monaco maronita, il primo orientale ad essere canonizzato secondo la forma usata nella Chiesa Cattolica latina. I suoi resti mortali furono sepolti in una fossa comune, accanto a quelli di altri monaci deceduti, come prescriveva la santa Regola.

Da quel momento, il cimitero cominciò ad esser illuminato durante la notte da una soave e misteriosa luce. Questo e altri prodigi, uniti alla sua fama di santità, portarono al trasferimento in un nuovo tumulo, nella parete della cripta della Chiesa di San Maron.

La fossa dove San Charbel era stato interrato era talmente umida che, al momento dell’esumazione, il corpo apparve letteralmente fradicio, ma miracolosamente integro e flessibile, trasudando un liquido rossastro dall’odore gradevole. Quando il nuovo tumulo fu aperto, nel 1950, 1952 e 1955, si constatò che continuava ad essere ancora flessibile e incorrotto.

La sua esemplare vita monastica e i numerosi miracoli realizzati con la sua intercessione, portarono il Papa Paolo VI a beatificarlo il 5 dicembre del 1965, nei giorni antecedenti la chiusura del Concilio Vaticano II e a canonizzarlo il 10 ottobre del 1977.

Esempio anche per noi

L’esempio di San Charbel Makhlouf indica un cammino anche nei giorni attuali, poiché il silenzio e la preghiera costituiscono un prezioso ausilio per trovare le soluzioni alle angosce e afflizioni dell’uomo contemporaneo. Sbaglia chi pensa che il raccoglimento sia privilegio esclusivo dei religiosi di clausura.

Esso è alla portata di tutti noi, poiché “la fonte della vera solitudine e del silenzio non è nelle condizioni o nella qualità del lavoro, ma piuttosto nel contatto intimo con Dio […] Il silenzio, così inteso, può trovarsi per strada, nello strepito del lavoro in fabbrica, nelle attività della campagna, perché lo portiamo dentro di noi”.2