I TRE AMORI BIANCHI – Gli Araldi del Vangelo in Italia I TRE AMORI BIANCHI – Gli Araldi del Vangelo in Italia

L’Eucaristia, l’Immacolata e il Sommo Pontefice!

Autore: Araldi del Vangelo (Page 1 of 118)

Preghiere nel mese del Sacro Cuore


CORONCINA al Sacro Cuore di Gesù recitata da Padre PIO, per chiedere ed ottenere una grazia insperata

Siete venuti per chiedere a questo povero frate di fare miracoli, che egli non è in grado di fare, non è me che dovete pregare, ma il Signore, io non sono nulla, io sono solo uno strumento, che Dio ha scelto per provare la sua esistenza. ogni mattina quando aprite gli occhi, ringraziatelo, per avervi dato un altro giorno da vivere in questo mondo pieno di meraviglie e pregate Dio, quando siete felici e, pregatelo quando il dolore vi fa soffrire, ma soprattutto pregate il Signore, perché nei vostri cuori infonda, la forza per diventare soldati di Cristo, per difendere le vostre case, per difendere le vostre tradizioni, per difendere la vostra fede, perché presto molto presto, questo è ciò, che tutti noi saremo chiamati a fare. 

Difendere la nostra fede ora pregate con me: 

Pàter nòster, qui es in caelis,
sanctificètur nomen tùum, advèniat regnum tùum,
fiat volùntas tua sìcut in caelo et in terra;
panem nostrum cotidiànum dà nobis hòdie,
et dimìtte nobis dèbita nostra
sìcut et nos dimìttimus debitòribus nostris,
et ne nos indùcas in tentatiònem,
sed lìbera nos a malo.
Amen


CORONCINA al Sacro Cuore di Gesù recitata da Padre PIO
 
1. O mio Gesù, che hai detto “in verità vi dico, chiedete ed otterrete, cercate e troverete, picchiate e vi sarà aperto!”, ecco che io picchio, io cerco, io chiedo la grazia…(esporre)
Pater, Ave, Gloria. 
– S. Cuore di Gesù, confido e spero in Te.
2. O mio Gesù, che hai detto “in verità vi dico, qualunque cosa chiederete al Padre mio nel mio nome, Egli ve la concederà!”, ecco che al Padre Tuo, nel Tuo nome, io chiedo la grazia…(esporre)
Pater, Ave, Gloria.
– S. Cuore di Gesù, confido e spero in Te.
3. O mio Gesù, che hai detto “in verità vi dico, passeranno il cielo e la terra, ma le mie parole mai!” ecco che appoggiato all’infallibilità delle Tue sante parole io chiedo la grazia…(esporre)
Pater, Ave, Gloria.
– S. Cuore di Gesù, confido e spero in Te.
O Sacro Cuore di Gesù, cui è impossibile non avere compassione degli infelici, abbi pietà di noi miseri peccatori, ed accordaci le grazie che ti domandiamo per mezzo dell’ Immacolato Cuore di Maria, tua e nostra tenera Madre, S. Giuseppe, Padre Putativo del S. Cuore di Gesù, prega per noi.
Salve Regina.

Offerta al Cuore Divino di Gesù

Cuore Divino di Gesù, io ti offro per mezzo del Cuore Immacolato di Maria, madre della Chiesa, in unione al Sacrificio Eucaristico, le preghiere, le azioni, le gioie e le sofferenze di questo giorno in riparazione dei peccati e per la salvezza di tutti gli uomini, nella grazia dello Spirito Santo, a gloria del Divin Padre.

Santi Marcellino e Pietro

Nei primi secoli del cristianesimo hanno goduto di grande popolarità. Dobbiamo a san Damaso la più antica notizia scritta del loro martirio

Nei primi secoli del cristianesimo i santi Marcellino e Pietro (†304), martirizzati durante le persecuzioni di Diocleziano, hanno goduto di grande popolarità. Dobbiamo a san Damaso (c. 305-384), il Papa che compose celebri epigrammi in onore dei martiri e ne identificò diversi sepolcri, la più antica notizia scritta del loro martirio. Damaso riferì di aver appreso di Marcellino e Pietro quando era appena un fanciullo, direttamente dalla voce del loro carnefice. Secondo il racconto di Damaso, il giudice ordinò di eseguire la condanna a morte dei due cristiani nel mezzo di un bosco, affinché il luogo della loro sepoltura rimanesse sconosciuto agli altri fedeli. Marcellino e Pietro furono costretti a scavarsi la fossa con le proprie mani e vennero poi decapitati. Una pia matrona di nome Lucilla venne a conoscenza del fatto e si preoccupò di far traslare i loro corpi per seppellirli degnamente.

Dal Martirologio Geronimiano, che li commemorava già al 2 giugno, si apprende che Marcellino era un sacerdote e Pietro un esorcista (uno degli antichi ordini minori, che comportava la recita di particolari preghiere sui catecumeni e all’occorrenza sui posseduti); il loro sepolcro era posto sul terzo miglio della via Labicana nelle catacombe Ad Duas Lauros (“Presso i due allori”, nell’odierna zona di Tor Pignattara), poi intitolate ai due martiri. Come riferisce il Liber Pontificalis, durante il pontificato di san Silvestro (314-335) quest’area era stata donata alla Chiesa da sant’Elena, madre dell’imperatore Costantino. Il quale fece edificare in loro onore una basilica, dove oggi sorge la Chiesa dei Santi Marcellino e Pietro ad Duas Lauros. A conferma dell’importanza del loro culto, Vigilio (papa dal 537 al 555) fece inserire i loro nomi nel Canone Romano, la più antica preghiera eucaristica della Chiesa.

San Giustino

Primo filosofo santo, visse tutta la sua giovinezza in una continua ricerca della verità. Passò da una scuola filosofica all’altra fino alla conversione a Cristo, che da quel momento testimoniò instancabilmente, prima con l’insegnamento e poi con il martirio

San Giustino (c. 100-165), il primo filosofo santo, visse tutta la sua giovinezza in una continua ricerca della verità. Passò da una scuola filosofica all’altra fino alla conversione a Cristo, che da quel momento testimoniò instancabilmente, prima con l’insegnamento e poi con il martirio. Benedetto XVI lo ha definito “il più importante tra i Padri apologisti del secondo secolo”, poiché si distinse come difensore della dottrina cristiana dalle accuse dei pagani e degli ebrei, che in modo diverso la osteggiavano.

Giustino nacque a Flavia Neapolis (oggi Nablus), presso l’antica Sichem, in Samaria. Ricevette un’educazione pagana. La sua sete di verità lo portò a studiare la filosofia degli stoici, degli aristotelici, dei pitagorici, ma senza mai trovare quello che cercava, cioè la via di Dio. Credette di aver terminato la sua ricerca approfondendo il pensiero di Platone, che gli fece coltivare l’idea di poter “giungere all’immediata visione di Dio”.

Illudendosi di poter conoscere il Creatore con le sue sole forze, si ritirò in un luogo isolato. Qui, come scrisse nel Dialogo con Trifone, s’imbatté in un anziano che lo spronò con le sue domande e gli chiese quale idea avesse di Dio: “Ciò che è sempre uguale a sé stesso e che è causa di esistenza per tutte le altre realtà, questo è Dio”, rispose Giustino. Il misterioso vegliardo parve rallegrarsi di questa risposta ma continuò a incalzarlo, facendogli riconoscere che i filosofi, se privi dell’aiuto dello Spirito Santo, non possono elaborare un retto pensiero di Dio senza averlo visto né udito. Gli indicò allora di leggere i Profeti, “che parlavano mossi dallo Spirito divino” e avevano annunciato Cristo. L’anziano si congedò da Giustino con l’esortazione a pregare come mezzo per giungere alla verità: “Tu prega anzitutto che le porte della luce ti siano aperte, perché nessuno può vedere e comprendere, se Dio e il suo Cristo non gli concedono di capire”.

Questa esperienza fu la svolta della sua vita. L’animo di Giustino, docile a quei santi consigli, si infiammò di amore per Cristo. Grazie alla preghiera e alla lettura della Bibbia maturò la sua conversione. Intorno al 130, quando aveva circa trent’anni, si fece battezzare a Efeso. L’esempio dei cristiani di fronte alle persecuzioni fu un altro elemento determinante nel suo cammino di fede: “Infatti io stesso, che mi ritenevo soddisfatto delle dottrine di Platone, sentendo che i cristiani erano accusati ma vedendoli impavidi dinanzi alla morte e a tutti i tormenti ritenuti terribili, mi convincevo che era impossibile che essi vivessero nel vizio e nella concupiscenza”. Viaggiò attraverso molte città per condividere la gioia che aveva scoperto e fondò una scuola a Roma, dove insegnava le verità di fede.

Nella sua Prima apologia dei cristiani, che indirizzò anzitutto all’imperatore Antonino Pio, criticò il paganesimo e i suoi miti, da lui indicati come “depistaggi” sulla strada verso la verità. Fece notare le ingiustizie che si commettevano nei tribunali, dove il solo fatto di essere cristiani diveniva motivo di condanna.

Giustino ebbe il grande merito di avviare la riflessione sulla perfetta conciliabilità tra fede e ragione. E, come scrisse san Giovanni Paolo II, fu “pioniere di un incontro positivo col pensiero filosofico, anche se nel segno di un cauto discernimento”, perché conservava la stima per i semi di verità della filosofia greca ma vedeva nel cristianesimo “l’unica sicura e proficua filosofia”. È sua pure la più antica testimonianza a noi pervenuta sullo svolgimento della celebrazione eucaristica. Del pane e del vino consacrati diceva: “Questo cibo è chiamato da noi Eucaristia, e a nessuno è lecito parteciparne, se non a chi crede che i nostri insegnamenti sono veri, si è purificato con il lavacro per la remissione dei peccati e la rigenerazione, e vive così come Cristo ha insegnato” (Apologia 1, 66, citata nel Catechismo della Chiesa Cattolica, 1355). Rifiutandosi di sacrificare agli idoli, venne condannato a morte dal prefetto Giunio Rustico durante l’impero di Marco Aurelio. Subì la decapitazione con altri sei discepoli (Caritone, Carito, Evelpisto, Ierace, Peone e Liberiano), tutti lieti di morire per la fede in Cristo risorto.

Giugno mese del Sacro Cuore!

La grande fioritura della devozione al Sacro Cuore di Gesù si ebbe dalle rivelazioni private della visitandina Santa Margherita Maria Alacoque che insieme a San Claude de la Colombière ne propagarono il culto.

Sin dal principio, Gesù ha fatto comprendere a Santa Margherita Maria Alacoque che avrebbe sparso le effusioni della sua grazia su tutti quelli che si sarebbero interessati a questa amabile devozione; tra esse fece anche la promessa di riunire le famiglie divise e di proteggere quelle in difficoltà riportando in esse la pace.

Santa Margherita scrive alla Madre de Saumaise, il 24 agosto 1685: «Egli (Gesù) le ha fatto conoscere, di nuovo, la gran compiacenza che prende nell’essere onorato dalle sue creature e le sembra che Egli le promettesse che tutti quelli che si sarebbero consacrati a questo sacro Cuore, non perirebbero e che, siccome egli è la sorgente d’ogni benedizione, così le spanderebbe, con abbondanza, in tutti i luoghi dove fosse esposta l’immagine di questo amabile Cuore, per esservi amato e onorato. Così riunirebbe le famiglie divise, proteggerebbe quelle che si trovassero in qualche necessità, spanderebbe l’unzione della sua ardente carità in quelle comunità dove fosse onorata la sua divina immagine; e ne allontanerebbe i colpi della giusta collera di Dio, ritornandole nella sua grazia, quando ne fossero decadute».

Ecco inoltre un frammento di una lettera della santa a un Padre gesuita, forse al P. Croiset: «Perché non posso io raccontare tutto quello che so di questa amabile devozione e scoprire a tutta la terra i tesori di grazie che Gesù Cristo racchiude in questo Cuore adorabile e che intende spandere su tutti quelli che la praticheranno?… I tesori di grazie e di benedizioni che questo sacro Cuore racchiude sono infiniti. Io non so che vi sia nessun altro esercizio di devozione, nella vita spirituale, che sia più efficace, per innalzare, in poco tempo, un’anima alla più alta perfezione e per farle gustare le vere dolcezze, che si trovano nel servizio di Gesù Cristo».«In quanto alle persone secolari, troveranno in questa amabile devozione tutti i soccorsi necessari al loro stato, vale a dire, la pace nelle loro famiglie, il sollievo nel loro lavoro, le benedizioni del cielo in tutte le loro imprese, la consolazione nelle loro miserie; è proprio in questo sacro Cuore che troveranno un luogo di rifugio durante tutta la loro vita, e principalmente all’ora della morte. Ah! come è dolce morire dopo avere avuto una tenera e costante devozione al sacro Cuore di Gesù Cristo!».«Il mio divin Maestro mi ha fatto conoscere che coloro che lavorano alla salute delle anime, lavoreranno, con successo e conosceranno l’arte di commuovere i cuori più induriti, purché abbiano una tenera devozione al suo sacro Cuore, e s’impegnino a ispirarla e stabilirla in ogni dove».«Infine, è molto visibile che non vi è nessuno al mondo che non riceva ogni sorta di soccorso dal cielo, se ha per Gesù Cristo un amore veramente riconoscente, come si è quello che gli si dimostra, con la devozione al suo sacro Cuore».

Questa è la raccolta delle promesse fatte da Gesù a santa Margherita Maria, in favore dei devoti del Sacro Cuore:

1. Io darò loro tutte le grazie necessarie al loro stato.
2. Io metterò la pace nelle loro famiglie.
3. Io li consolerò in tutte le loro afflizioni.
4. Io sarò il loro sicuro rifugio in vita e specialmente in morte.
5. Io spanderò le più abbondanti benedizioni sopra tutte le loro imprese.
6. I peccatori troveranno nel mio Cuore la fonte e l’oceano infinito della misericordia.
7. Le anime tiepide diverranno fervorose.
8. Le anime fervorose s’innalzeranno rapidamente a una grande perfezione.

9. Io benedirò le case ove l’immagine del mio sacro Cuore sarà esposta e onorata.
10. Io darò ai sacerdoti il dono di commuovere i cuori più induriti.
11. Le persone che propagheranno questa devozione avranno il loro nome scritto nel mio Cuore e non ne sarà mai cancellato.

Santa Giovanna d’Arco

La storia di santa Giovanna d’Arco (1412-1431), l’eroina che nel giro di un anno guidò la Francia a vincere battaglie decisive contro gli inglesi che ne occupavano il territorio, mostra in grado eccelso non solo che nulla è impossibile a Dio, ma ne rivela il concreto operare nella storia dell’uomo, innalzando gli umili che si abbandonano fiduciosi alla Sua volontà

Nel giro di un anno, da giovanissima contadina analfabeta, guidò la Francia a vincere battaglie decisive contro gli inglesi che ne occupavano il territorio. La storia di santa Giovanna d’Arco (1412-1431) mostra in grado eccelso che nulla è impossibile a Dio e rivela il Suo concreto operare nella storia dell’uomo, attraverso gli umili che si abbandonano alla Sua volontà.

Nacque a Domrémy in un periodo in cui la Chiesa era lacerata dallo Scisma d’Occidente. Fin dall’infanzia mostrò la sua devozione cristiana e la carità verso i malati e i poveri. Crebbe nella fase più calda della Guerra dei Cent’Anni (1337-1453).

Giovanna era appena una tredicenne quando udì per la prima volta la voce di san Michele Arcangelo, a cui si aggiunsero presto due grandi martiri dell’antichità: santa Margherita d’Antiochia e santa Caterina d’Alessandria. Le voci celesti le parlarono inizialmente della sua vita personale e poi le ordinarono di lasciare tutto per porsi alla testa dell’esercito francese. La fanciulla fece voto di verginità. Dopo tre incontri con un capitano, che all’inizio l’aveva derisa, ottenne di poter incontrare il Delfino di Francia, il futuro Carlo VII. Gli disse di essere stata inviata da Dio per portare soccorso a lui e al suo legittimo regno. Il sovrano, sbalordito, la fece esaminare per due volte da ecclesiastici e teologi per capire se quella richiesta celeste potesse essere fondata; ottenuto un parere positivo, le consentì di accompagnare una spedizione militare in aiuto alla strategica città di Orleans, pesantemente assediata dagli inglesi.

Era il 1429 e iniziò così l’epopea di Giovanna d’Arco. Il 22 marzo fece avere una lettera agli inglesi: “Gesù, Maria! Re d’Inghilterra e voi duca di Bedford che vi dite reggente del regno di Francia, voi Guglielmo di La Poule, conte di Suffolk, Giovanni sire di Talbot, e voi Tommaso sire di Scales […] rendete giustizia al Re del Cielo. Restituite alla Pulzella [le voci celesti la chiamavano così, ndr] che qui è stata inviata da Dio, il Re del Cielo, le chiavi di tutte le buone città da voi prese e violate in Francia. Ella è venuta qui da parte di Dio per implorare il sangue reale. Ella è pronta a far pace, se volete renderle giustizia, a patto che le restituiate la Francia e paghiate per averla tenuta. E fra voi, arcieri e compagni di guerra e voi altri che siete sotto la città di Orleans, andatevene nel vostro paese in nome di Dio […]”. La lettera rimase inascoltata. La ragazza arrivò a Orleans in sella a un cavallo. Era vestita da soldato e munita di uno stendardo bianco raffigurante Cristo Re e avente la scritta Jesus-Maria.

Preceduta da un corteo di sacerdoti che intonavano il Veni Creator, Giovanna trovò Orleans in una situazione drammatica: gli inglesi l’avevano letteralmente accerchiata, grazie al controllo di 11 fortezze. Prima del suo arrivo la popolazione francese all’interno delle mura aveva spinto per la resa, ma il carisma di Giovanna capovolse tutto. Innanzitutto, riuscì a riformare le truppe francesi: allontanò le prostitute, proibì le bestemmie, le violenze e i saccheggi, impose ai soldati di confessarsi e li riuniva due volte al giorno in preghiera attorno allo stendardo di Cristo Re. Il 30 aprile, qualche giorno prima che iniziasse la battaglia, salì su un bastione per farsi sentire da tutti gli inglesi: chiese loro di interrompere l’assedio, ma venne ricoperta di insulti. Gli inglesi la minacciarono di bruciarla viva se l’avessero fatta prigioniera. Giovanna provò altre volte, invano, la via diplomatica.

La notte tra il 4 e il 5 maggio 1429 scoppiò la battaglia: l’8 maggio Orleans era totalmente liberata. Il 18 giugno la Pulzella guidò il suo popolo a un’altra clamorosa vittoria nella battaglia di Patay, dove morirono, per una serie incredibile di fatti, oltre duemila soldati inglesi e solo tre francesi. Giovanna pianse le vittime dell’uno e dell’altro campo. Scese perfino da cavallo per confortare un avversario moribondo e aiutarlo a confessarsi. Dopo Patay, diverse città in mano agli inglesi si arresero senza colpo ferire. Il 17 luglio, nella cattedrale di Reims, Carlo VII poté essere consacrato e incoronato re di Francia, secondo la volontà divina manifestata a Giovanna.

Purtroppo, le divisioni interne alla nobiltà francese vicina alla corte (parte della quale cercava il compromesso con i borgognoni) e un mutato atteggiamento verso la Pulzella condussero alla sua cattura, il 23 maggio 1430, da parte dei borgognoni. Questi ultimi, alcuni mesi dopo, vendettero Giovanna agli alleati inglesi.

L’Università di Parigi, succube degli inglesi, chiese di processarla per eresia. Venne presto istituito uno pseudo tribunale inquisitorio, composto da ecclesiastici al soldo degli occupanti, con in testa il vescovo Pierre Cauchon (†1442), scomunicato post mortem. Il 3 gennaio 1431 Enrico VI, re d’Inghilterra, scrisse ai giudici per pressarli a condannare Giovanna come eretica e strega. Durante l’estenuante processo, la santa rispose con sapienza e disse di sottomettersi in tutto al giudizio della Chiesa, nella quale non riconosceva però quei giudici. Venne infine condannata con accuse false. Chiese di essere condotta dal Papa, ma i giudici glielo negarono. A nulla valse il tentativo di buoni uomini di Chiesa come il celebre sacerdote Giovanni Lohier – che si recò a Rouen affermando che quel processo era nullo – il vescovo di Avranches (imprigionato anche lui) e altri ancora.

Gli inglesi avevano già deciso tutto e detenevano Giovanna come prigioniera di guerra in un castello da loro controllato, e non in una prigione dell’Inquisizione, come sarebbe avvenuto in un regolare processo ecclesiastico. La condanna serviva pure per screditare il re francese che si era fidato dei doni mistici di Giovanna. Doni che proseguirono in carcere: “Santa Caterina mi ha detto che sarei stata soccorsa; non so dire se ciò si riferisse alla mia liberazione dal carcere o durante il processo […]. Ma più spesso le voci mi dicevano che sarei stata liberata con grande vittoria. Poi le voci mi dicevano: Accetta con serenità tutto questo, anche il tuo martirio, perché alla fine tu verrai nel regno del Paradiso”.

Il 30 maggio 1431, dopo aver chiesto e ottenuto di confessarsi e ricevere l’Eucaristia, Giovanna venne bruciata viva a Rouen. Invocò il perdono sui suoi carnefici e gridò a gran voce il Nome di Gesù. Le fiamme consumarono tutto il suo corpo, tranne il suo cuore, rimasto intatto: gli inglesi lo gettarono nella Senna. Molti testimoniarono di aver visto il Nome di Gesù scritto nel fuoco. Così morì santa Giovanna d’Arco, fedele fino al martirio a Cristo crocifisso e risorto.

Nel 1455, dopo che i francesi avevano riconquistato tutta la Francia ed era morto l’ultimo antipapa della storia, Callisto III autorizzò una revisione del processo. L’anno successivo Giovanna fu riconosciuta del tutto innocente e venne dichiarato nullo il processo che l’aveva condannata. Benedetto XV la canonizzò nel 1920. Due anni più tardi venne proclamata patrona di Francia.

Ascensione del Signore

Oggi si celebra il mistero glorioso dell’Ascensione di Gesù, l’evento che segna l’inizio della missione della Sua Sposa, la Chiesa. In passato, nei tre giorni precedenti l’Ascensione erano diffusissime le Rogazioni, introdotte nel V secolo da san Mamerto, che pensò a un triduo di preghiere, digiuni e processioni solenni, per chiedere con fiducia il favore di Dio. Mai abolite, sarebbe bello riscoprirle

Giotto_Ascensione di Gesù

“Uomini di Galilea, perché state a guardare il cielo? Questo Gesù, che è stato di tra voi assunto fino al cielo, tornerà un giorno allo stesso modo in cui l’avete visto andare in cielo” (At 1, 11). Le parole dei due angeli che apparvero ai discepoli mentre questi stavano ancora cercando di scorgere la gloria di Cristo, sottratto al loro sguardo da una nube, chiudono il racconto biblico dell’Ascensione del Signore, l’evento che segna l’inizio della missione della Chiesa.

È ricco di significato il fatto che Gesù ritorni al Padre ascendendo proprio dalla sommità del Monte degli Ulivi. Lì si era compiuto il mistero doloroso del suo totale abbandono alla volontà del Padre, caricando sulla sua sacra umanità, grondante sudore di sangue, il peso dei peccati degli uomini di tutti i tempi. L’Ascensione è il completamento glorioso di quel mistero: il corpo di Gesù, insieme alla sua anima e alla sua divinità, entra definitivamente nella gloria divina e indica la strada a chi lo ama.

Negli Atti degli ApostoliLuca scrive che Gesù Risorto apparve per 40 giorni ai discepoli, dando loro le ultime istruzioni sul Regno di Dio e preannunciando il compimento di un altro mistero glorioso, la Pentecoste: “[…] avrete forza dallo Spirito Santo che scenderà su di voi e mi sarete testimoni a Gerusalemme, in tutta la Giudea, la Samarìa e fino agli estremi confini della terra” (At 1, 8). Già nell’Ultima Cena, Gesù aveva spiegato agli apostoli la necessità del suo distacco visibile per essere riempiti di Spirito Santo (“è bene per voi che io me ne vada, perché, se non me ne vado, non verrà a voi il Consolatore”). E aveva profetizzato che la proclamazione del Vangelo sarebbe stata accompagnata dalle persecuzioni. Allo stesso tempo Pietro e compagni erano stati edotti sul fine ultimo di tutto il disegno divino, racchiuso sempre nelle parole di Gesù: “Nella casa del Padre mio vi sono molti posti. […] Io vado a prepararvi un posto” (Gv 14, 2).

La glorificazione di Gesù è perciò il preludio alla glorificazione delle membra del suo Corpo Mistico, la Chiesa, chiamata a proseguire la sua missione sulla terra. La Sposa di Cristo è forte della promessa da Lui fatta nel giorno in cui proclamò il primato di Pietro: “E le porte degli inferi non prevarranno contro di essa” (Mt 16, 18). Una promessa che contiene l’annuncio della battaglia destinata a proseguire fino alla fine del mondo, nonché della scelta – tra Dio e il Nemico, tra la sua Parola e la menzogna – che ogni anima dovrà affrontare. La beatitudine eterna è la ricompensa per coloro che vinceranno il proprio combattimento spirituale e guadagneranno un posto in Paradiso. Lì ci attende il Figlio che “siede alla destra del Padre”, come professiamo nel Credo e leggiamo nelle Sacre Scritture. Ben sapendo che Gesù si è reso perennemente e realmente presente nell’Eucaristia, nutrimento salvifico in vista dei beni della Gerusalemme Celeste.

La celebrazione liturgica dell’Ascensione ha origini antichissime ed è attestata dal IV secolo. Cadendo 40 giorni dopo la Pasqua, la solennità dell’Ascensione si celebra il giovedì della sesta settimana del Tempo Pasquale oppure, nei Paesi dove non è festività civile, è posticipata alla domenica successiva.

In passato, nei tre giorni precedenti l’Ascensione erano diffusissime le Rogazioni, oggi purtroppo in disuso ma mai abolite. Dopo una serie di calamità naturali, furono introdotte nel V secolo da san Mamerto di Vienne, che pensò a un meraviglioso triduo di preghiere, digiuni e processioni solenni, per chiedere con fiducia il favore di Dio. Sarebbe bello riscoprirle.

SAN FILIPPO NERI SULLE CONFESSIONI SACRILEGHE

“Altra volta ancora lo stesso Santo, preparava uno stuolo di bambini a confessarsi bene: i maschi da un lato e le femminucce dall’altro. D’un tratto scorge sotto i banchi uno scimmiotto colle corna, il quale si spostava continuamente, andando ora da una parte, ora dall’altra.
— Che fai tu qui, brigante d’un diavolo peloso?
— Sono venuto a fare restituzione.
— Quale restituzione?
— Vengo a restituire a questi ragazzi la vergogna. Quella vergogna e quel pudore che avevo portato via da loro quando li spingevo a fare i peccati, parole oscene, atti brutti e disonesti. Ora restituisco loro la vergogna, affinchè non abbiano a confessarsi bene, ma abbiano a tacere i peccati gravi e vergognosi, facendo così tanti sacrilegi.
Allora, S. Filippo, con un segno di croce, fugò il Maligno, giammai stanco e soddisfatto di condurre alla rovina irreparabile tante e tante anime.”

San Filippo Neri

“Non vorrai mica che dicano che Filippo è un santo?”, rispose una volta san Filippo Neri (1515-1595) a chi gli raccomandava di essere un po’ più serio. Grazie al suo proverbiale umorismo, così unito alla carità, conquistò a Dio tante anime…

“Non vorrai mica che dicano che Filippo è un santo?”, rispose una volta san Filippo Neri (1515-1595) a chi gli raccomandava di essere un po’ più serio. Grazie al suo proverbiale umorismo, così unito alla carità, conquistò a Dio tante anime.

Secondo di quattro figli, era fiorentino di nascita, come teneva a precisare. Rimase orfano della madre quando aveva appena cinque anni. Crebbe con una grande passione per la lettura, specie per le Laude del beato Jacopone da Todi, che poi farà musicare.

Arrivò a Roma nel 1534 da pellegrino, ma vi rimase come precettore dei due figli del fiorentino Galeotto Caccia, che poi si diedero entrambi alla vita religiosa. In questo primo periodo romano Filippo visse da semplice laico, tra digiuni e preghiere. Aveva già una grande inclinazione all’apostolato, come dimostrò prendendosi cura degli infermi all’Ospedale di San Giacomo. Era devotissimo alla Madonna e si commuoveva pensando all’amore dei martiri per Cristo. Per questo amava stare in contemplazione nelle catacombe. Proprio lì avvenne una delle esperienze mistiche più grandi della sua vita. Nel giorno di Pentecoste del 1544, mentre era raccolto in preghiera nelle Catacombe di San Sebastiano, una straordinaria effusione di Spirito Santo gli provocò una dilatazione del cuore e delle costole. Questo fatto fu confermato dalle analisi mediche post mortem, nonché dalle molte persone che testimonieranno di aver sentito un singolare calore a contatto con il suo petto.

Allora decise di lasciare la casa dei Caccia, vivendo come un eremita in città. Dormiva in ripari di fortuna e passeggiava vestito di una tonaca con cappuccio, attirandosi spesso le prese in giro dei giovani. Lui stava al gioco, ne conquistava l’amicizia con qualche barzelletta e poi iniziava la catechesi: “Fratelli, state allegri, ridete pure, scherzate finché volete, ma non fate peccato!”. Su consiglio di padre Persiano, fondò la Confraternita della Trinità, per aiutare pellegrini e bisognosi. Si riteneva indegno di divenire sacerdote ma alla fine, a 35 anni, dopo le insistenze di padre Persiano, ricevette l’ordinazione. I fedeli iniziarono a fare la fila per confessarsi con lui e il santo, che ardeva dal desiderio di salvare le anime, stava in confessionale dall’alba a mezzogiorno. A quell’ora celebrava la Messa e non di rado gli capitava di andare in estasi, uno dei suoi maggiori doni mistici insieme alle bilocazioni.

L’incontro con i penitenti, che spesso andavano a trovarlo pure a tarda sera nella sua cameretta presso San Girolamo della Carità, diede a Filippo l’impulso per fondare nel 1551 la Congregazione dell’Oratorio. Con l’aiuto di altri sacerdoti, il santo riuscì a coinvolgere nella preghiera e nella lettura della Bibbia persone di ogni estrazione sociale e specialmente i ragazzi. A loro trasmise, con la sua allegria e la creatività, una solida educazione cristiana. “Ladro rapacissimo nel portar via i migliori”, lo definì san Carlo Borromeo, che cercò in tutti i modi di condurre l’amico a Milano per fargli fondare anche lì un oratorio. Ma il santo, che venne chiamato “Apostolo di Roma”, era ormai romano d’adozione. E in romanesco pronunciava le sue celebri battute, sempre contenenti un insegnamento. Così, se un ragazzo lo faceva spazientire, gli diceva “te possi morì ammazzato…” e aggiungeva: “Ppe’ la fede!”, augurandogli la grazia del martirio.

Fu lui a ridare vigore al Giro delle Sette Chiese, contrastando la licenziosità dei festeggiamenti di Carnevale. Il pellegrinaggio tra sette delle più antiche basiliche romane – che si svolgeva recitando i sette salmi penitenziali per invocare il perdono dei sette vizi capitali e chiedere i sette doni dello Spirito Santo – divenne in breve popolarissimo. Ed estremamente popolare è divenuta la risposta (riportata nel suo processo di canonizzazione) che diede nell’ultima fase della sua vita terrena a Clemente VIII. Questo papa lo voleva fare cardinale per ringraziarlo dei suoi consigli nell’opera di riconciliazione con il re di Francia. San Filippo declinò l’offerta, alzò gli occhi al cielo e manifestò la sua unica aspirazione: “Paradiso, Paradiso”.

San Gregorio VII

Al suo nome è legata la “Riforma gregoriana”, la vasta opera riformatrice già avviata dai suoi predecessori e di cui fu il maggior rappresentante. Scomunicò Enrico IV, che poi fece la celebre penitenza di Canossa, nell’era della “Lotta per le investiture”, difendendo il diritto della Santa Sede nella nomina dei vescovi

In quel periodo travagliatissimo per la cristianità che fu l’XI secolo emerse la personalità straordinaria di san Gregorio VII (c. 1015-1085), al cui nome è legata la “Riforma gregoriana”. Venne chiamata così perché Gregorio fu il maggior rappresentante e sostenitore della vasta opera riformatrice già avviata dai suoi predecessori, che ridiede linfa a una Chiesa svilita dalla diffusa immoralità del clero e dalle ingerenze imperiali.

Al secolo Ildebrando di Soana, toscano di nascita, studiò da giovane a Roma e poi all’Abbazia di Cluny, con in mezzo un periodo di formazione in Germania. In questa fase Ildebrando poté conoscere i religiosi più attivi nel promuovere la riforma della Chiesa, come per esempio Brunone di Toul. Brunone divenne papa nel 1049 con il nome di Leone IX (1002-1054) e si adoperò per difendere il celibato ecclesiastico e combattere la simonia.

Proprio san Leone IX lo inviò come legato papale in Francia, dove Ildebrando si trovò a gestire il caso di Berengario di Tours, che aveva creato scandalo mettendo in dubbio la presenza reale di Gesù nell’Eucaristia. L’autorevolezza di Ildebrando nella vita della Chiesa andò progressivamente crescendo. Collaborò anche con i successori di Leone IX, in un frangente storico in cui vigeva il “Privilegio di Ottone” (promulgato nel 962), che richiedeva l’assenso dell’imperatore per l’elezione del pontefice. Era a tal punto stimato nella Chiesa fedele a Cristo che i cardinali riformatori, sul letto di morte di Stefano IX, giurarono che non avrebbero eletto alcun papa fino al ritorno a Roma di Ildebrando: si decisero poi a raggiungerlo in Toscana, eleggendo insieme Niccolò II (†1061). Fu quest’ultimo, con la bolla In nomine Domini (1059), a porre fine al potere di intromissione dell’imperatore nell’elezione papale, stabilendo la prerogativa esclusiva dei cardinali nella scelta del papa.

Ildebrando salì al soglio pontificio nel 1073 e continuò energicamente la riforma della Chiesa. Agì contro la simonia, il concubinaggio ecclesiastico e le altre immoralità che attanagliavano il clero. Dal ricco epistolario che ci è pervenuto (438 lettere), emerge tutto il suo carisma. Così scriveva a sant’Ugo di Cluny: “Se poi con gli occhi dello spirito guardo a occidente, a sud o a nord, a stento io trovo vescovi legittimi per elezione e per condotta di vita, che si lascino guidare… dall’amore di Cristo e non dall’ambizione mondana”. Nel 1075 scrisse il documento noto come Dictatus Papae, un elenco di 27 proposizioni in cui affermava che solo il pontefice può di diritto essere chiamato “universale”, perché la Chiesa è stata fondata direttamente da Dio; e solo il papa può deporre e reinsediare i vescovi, e fare altrettanto con l’imperatore. Gregorio VII affermava in breve che il potere spirituale del papa è superiore al potere temporale di qualsiasi sovrano, perché ogni successore di Pietro opera in terra come Vicario di Cristo.

Nel frattempo Enrico IV di Franconia (1050-1106) continuava illegittimamente a nominare vescovi in Germania, acuendo lo scontro passato alla storia come “Lotta per le investiture”. Gregorio scomunicò una prima volta il sovrano. Il quale, trovandosi delegittimato agli occhi dei sudditi, si vide costretto a chiedere il perdono del papa, con la celebre penitenza di Canossa.

Negli anni successivi Enrico IV si rafforzò, proseguì nei suoi tentativi di egemonia sulla Chiesa, elesse perfino un antipapa e assediò Roma, obbligando Gregorio a chiedere l’aiuto dei Normanni di Roberto il Guiscardo. I Normanni liberarono sì l’Urbe dagli invasori ma finirono per saccheggiarla selvaggiamente, senza risparmiare nemmeno le chiese. Era il 1083. Il papa fu di fatto costretto a passare l’ultima parte della sua vita in esilio a Salerno, dove sulla sua tomba venne scolpita la frase: “Ho amato la giustizia e ho odiato l’iniquità: perciò muoio in esilio”. In una lettera ai monaci di Marsiglia aveva scritto parole che suonano attuali: “Sono rari i buoni che anche in tempo di pace sono capaci di servire Dio. Ma sono rarissimi quelli che per Suo amore non temono le persecuzioni o sono pronti a opporsi decisamente ai nemici di Dio. Perciò la religione cristiana – ahimè – è quasi scomparsa, mentre è cresciuta l’arroganza degli empi”.

Santa Maria Salome a Veroli

Santa Maria Salomè a Veroli 

Giuseppe Cesari, detto Cavalier d’Arpino (1568-1640)

Pala d’altare raffigurante Santa Maria Salomè, ca. 1621-1625 

dipinto di Santa Maria Salomè a Veroli
Abside della Chiesa di Santa Maria in Salomè, piazza Santa Maria in Salomè, Veroli (FR)

La pala di Santa Maria Salomè nell’omonima chiesa di Veroli, opera del pittore seicentesco Giuseppe Cesari, è immersa in un contesto settecentesco e dialoga con le opere al suo fianco. La santa, che secondo la tradizione arrivò a Veroli nel 1209, viene effigiata dal Cavalier d’Arpino in una posa ieratiche e severa, che rimanda alla produzione pittorica degli anni venti. 

Collocazione 

L’opera è collocata nel catino absidale della basilica di Santa Maria Salomè a Veroliall’interno di una  cornice in gesso dorato sorretta da due putti, che risale al  settecento. Originariamente, come risulta dalla descrizioni  redatta in occasione della Visita del Vescovo Francesco  Lombardi del 1656, la pala era di forma rettangolare,  collocata sempre nella parte absidale della chiesa e  sull’altare maggiore. Il discorso artistico che andava ad  instaurarsi vedeva la pala di Santa Salomè al centro, le  statue dei santi Giacomo e Giovanni ai lati dell’altare ed una madonna in stucco in alto. La pala si deduce già in loco da  quanto si legge nel resoconto della Visita del Vescovo  Baglione Corradini nell’aprile del 1627, che riporta:  <<Visitò l’altare maggiore e lo trovò decorosamente  ornato>>. 

I rinnovamenti settecenteschi

I rinnovamenti settecenteschi (che coincidono  con l’attuale aspetto della chiesa) mutano l’impianto  artistico, senza stravolgere i rapporti tra i vari personaggi.  Infatti, sebbene la pala venne spostata leggermente più in  alto e collocata all’interno della sontuosa cornice dorata, ai  lati dell’abside vennero disposte che ritraggono i santi figli Giacomo e Giovanni. Inoltre, sebbene il Rottgen indichi genericamente lo spostamento della pale nel settecento, è probabile che  questo sia avvenuto attorno al 1742. Il vescovo  Tartagni volle quindi far costruire l’altare maggiore e la  confessione con marmi preziosi e alabastro. Questi diventarono lo scrigno delle reliquie di Sàlome e dei suoi compagni martiri Biagio e Demetrio. 

Lo stile del Cavalier d’Apino al momento della realizzazione dell’opera 

La pala del Cesari raffigura Maria Salomè, santa è particolarmente venerata a  Veroli. Secondo la tradizione Salomè sarebbe giunta a Veroli e nel 1209 furono rinvenuti i suoi resti nel luogo ove  è edificata l’attuale basilica. La pala rientra in una produzione  artistica del Cavalier D’Arpino limitata a pale d’altare e  quadretti dal contenuto biblico o mitologico. Dal 1620 il  Cesari sviluppa uno stile severo, con figure immobili e ieratiche rifacendosi quasi a forme paleocristiane . L’orientamento  bizantineggiante ed il gusto figurativo paleocristiano  trovano coerenza con l’arte romana attorno al 1600, sotto  l’influsso del cardinale Baronio. 

La pala 

La Pala d'altare della chiesa di Santa Maria Salomè che raffigura l'omonima santa

Questa tendenza è dimostrata dalla pala di Salomè, vicina pure alla pala del  San Michele ad Arpino dello stesso periodo. Il tardo stile  manieristico sembra spingere l’autore ad abbandonare la  retorica dei gesti ed a concentrarsi sulla scelta cromatica.  Una scelta costituita da tonalità delicate, ma fredde con  accordi di grigio- azzurro e giallo-oro. Assieme alle statue  dei santi Giacomo e Giovanni e dai successivi dipinti che le  sostituirono, il dipinto interpreta la liturgia pasquale. Infatti, la seguace di Gesù compare sull’altare, come se fosse la  mattina di Pasqua, con la pisside contenente gli unguenti  nella mano sinistra e con la mano destra aperta ad indicare il sepolcro vuoto. Quest’ultima sporge dal mantello in  maniera un po’ infelice e troppo in basso. Ciò, riconduce  alla levatrice Salomè (identificata con Maria Salomè) che,  secondo il protovangelo di Giovanni, nei capitoli 19 e 20,  avrebbe dubitato della verginità di Maria durante il parto,  per questo la sua mano si sarebbe seccata, ma guarì dopo  aver toccato Gesù. 

I restauri

L’opera ha subito due diversi restauri,  uno da riferirsi al 1973 in occasione delle mostre (tenute  rispettivamente ad Arpino ed a Roma a Palazzo Venezia ).  L’altro restauro, probabilmente più incisivo, è del 1980 e  dalla perizia di spesa risulta che il dipinto è stato: foderato  su una nuova tela, consolidato il colore, pulito, stuccato,  reintegrato nella superficie pittorica e verniciato secondo le indicazioni del direttore del Consorzio Associato di Nuovi  restauratori, che nel 1980 era Spada Laura.

Bibliografia 

G. D’Onorio – G. Trulli, Veroli un percorso di storia e di arte, Veroli 2014, pp.116-117.

H. Röttgen, Modello storico, modus e stileIl ritorno dell’età paleocristiana attorno al 1600, in Arte e committenza nel Lazio nell’età di Cesare Baronio, a cura di P. Tosini, 2007, pp. 38 -39.

H. Röttgen, Il Cavalier Giuseppe Cesari D’Arpino, Roma, 2002, pp.169-177; p. 443

F. Mancini, Santa Salome e Veroli…quasi la storia, Alatri, 1997, pp. 348-352.

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