I TRE AMORI BIANCHI – Gli Araldi del Vangelo in Italia I TRE AMORI BIANCHI – Gli Araldi del Vangelo in Italia

L’Eucaristia, l’Immacolata e il Sommo Pontefice!

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XXXII Domenica del Tempo Ordinario – Anno B.

L’obolo della vedova

Vangelo

“In quel tempo, 38 Gesù mentre insegnava diceva a una grande moltitudine: ‘Guardatevi dagli scribi, che amano passeggiare in lunghe vesti, ricevere saluti nelle piazze; 39 avere i primi seggi nelle Sinagoghe e i primi posti nei banchetti.40 Divorano le case delle vedove e ostentano di fare lunghe preghiere; essi riceveranno una condanna più grave’. 41E sedutosi di fronte al tesoro, osservava come la folla gettava monete nel tesoro. E tanti ricchi ne gettavano molte.  42 Ma venuta una povera vedova vi gettò due spiccioli, cioè un quattrino. 43 Allora, chiamati a  i discepoli, disse loro: “In verità vi dico: questa vedova ha gettato nel tesoro più di tutti gli altri. 44 Poiché tutti hanno dato del loro superfluo, essa invece, nella sua povertà, vi ha messo tutto quello che aveva, tutto quanto aveva per vivere” (Mc 12, 38-44)

Dare, dare di sé, darsi del tutto!

Di fronte alle menzognere apparenze derivate dall’orgoglio, manifestate nell’ipocrisia dei dottori della Legge, Nostro Signore ci esorta a esser sinceramente generosi come la povera vedova, dando tutto di noi stessi per amore a Lui.

I – La gioia di dare

Quando analizziamo la natura, troviamo un fenomeno diffuso in tutta la creazione, dal regno minerale fino al mondo degli esseri angelici.

Il Sole diffonde sempre la sua luce e il suo calore sulla Terra, beneficiando tutti gli esseri che hanno bisogno di questa irradiazione. Le acque, nel loro costante movimento, evaporano e costituiscono nuvole che, dopo essersi caricate, scaricano al suolo elementi indispensabili per la vita. Costatiamo la straordinaria varietà e la sovrabbondanza di pesci che popolano i mari e i fiumi per alimentare l’uomo, o la ricchezza di frutti che la terra gli offre durante tutto l’anno.

Vediamo qui come la natura, per così dire, cerca di darsi. Se i suoi elementifossero passibili di felicità, l’albero fruttifero, per esempio, avrebbe un giubilo enorme per il fatto di produrre frutti e offrirli all’uomo; il mare si sentirebbe felice di consegnargli i pesci e la gioia del Sole consisterebbe nell’illuminare e riscaldare costantemente la Terra e coloro che vi abitano. Dunque, questa generosità che avviene nell’universo intero è il principio sul quale si fonda la Liturgia di oggi: dare, dare di sé, darsi del tutto!

II – Contrasto tra egoismo e generosità

Per intendere bene il passo evangelico scelto dalla Chiesa per questa domenica, dobbiamo considerare che i Sacri Vangeli non furono scritti semplicemente come un libro comune, una storia per far bene alle anime pietose dei primi tempi del Cristianesimo. Innanzitutto, essi furono una convocazione all’auge spirituale, a una perfezione come quella del Padre del Cielo. Ma non solo questo: divennero anche un elemento di polemica, visto che i primi divulgatori della Buona Novella, nella loro azione apostolica, trovarono davanti a sé ostacoli da superare. Quando San Marco elaborò il suo Vangelo, uno di questi intoppi proveniva da uomini esperti nella Legge di Mosè e nelle Scritture dell’Antico Testamento.

Teniamo presente anche questo: l’Evangelista visse a Roma per molto tempo, come ausiliare di San Paolo e di San Pietro, e scriveva con lo scopo di raggiungere il pubblico romano, com’è opinione comune degli esegeti. In quel tempo molti giudei risiedevano nella capitale dell’Impero e un buon numero di loro stava entrando a far parte delle fila cristiane. Tanto chi rimaneva nella Sinagoga quanto i neoconvertiti (prima di avere una conversione piena, il che non era facile) volevano a ogni costo far prevalerei loro costumi e la Legge di Mosè tra i cristiani, anche nell’ambiente di quelli provenienti dalla gentilità. Possiamo confermarlo nella Lettera di San Paolo ai Romani, nella quale egli rimprovera lungamente i giudei di Roma per tale atteggiamento.

Mentre San Luca e San Matteo non si mostrano così contundenti di fronte a questa situazione, San Marco polemizza instancabilmente, in modo particolare contro i dottori della Legge, poiché costoro ingarbugliavano la sua azione apostolica, come risulta chiaramente dai frequenti riferimenti aloro rivolti nel suo Vangelo.1

Non risparmiando meritate critiche, San Marco dà risalto alle discussioni di Nostro Signore con loro e da queste trae ricchissime lezioni morali per i cristiani di tutti i tempi. È quanto contempliamo nel primo versetto di questo Vangelo.

Ammonire le moltitudini contro l’ipocrisia

“In quel tempo, 38 Gesù mentre insegnava diceva a una grande moltitudine: ‘Guardatevi dagli scribi, che amano passeggiare in lunghe vesti, ricevere saluti nelle piazze; 39 avere i primi seggi nelle Sinagoghe e i primi posti nei banchetti’”.

È importante mettere in risalto il dettaglio indicato dall’evangelista: Gesù parlava a “una grande moltitudine”. Fu, pertanto, un insegnamento destinato a tutti e dato senza tergiversare, ammonendo il popolo contro i dottori della Legge, per le ragioni esposte a seguire.
Rovine dell’agorà di Efeso

Secondo i costumi dell’epoca, era naturale che chiunque facesse venie speciali quando passava un dottore della Legge, cui erano riservati i posti d’onore nelle cerimonie pubbliche. Come fa notare padre Tuya, la piazza pubblica, o agorà, era il centro commerciale e sociale della città, per questo, agli scribi e ai farisei piaceva, con i loro vistosi indumenti, passeggiare lentamente e gravemente in questo luogo, per ricevere i saluti del popolo. Ambivano in modo speciale il titolo di Rabbi (mio Maestro). “Nelle assemblee, i posti erano assegnati non solo in ragione dell’età, ma anche della dignità del personaggio, per esempio, della sua sapienza. Siccome i posti designati in ragione della dignità erano molto meno numerosi di quelli destinati alle persone per motivo di età, i farisei volevano, per ostentazione e vanità, che nei banchetti gli fossero dati questi primi posti, per mettere in risalto così la loro dignità. […] Era un’ansia smodata, infantile e quasi patologica di vanità e superbia”.2

Una lettura superficiale dei due versetti sopra trascritti potrebbe portare a credere che non si debbano usare abiti belli, salutare con cortesia o favorire la gerarchia nelle relazioni sociali. D’altronde, gli indumenti nobili e decorosi si stanno abbandonando, in virtù della mentalità dei giorni nei quali stiamo entrando. Predomina il brutto per il brutto e l’egualitario per l’egualitario. Si sta generalizzando il gusto di vestirsi il più negligentemente possibile, in modo da potersi sedere per terra; entrano nella moda il brutto, il vecchio, lo stracciato e l’immorale, mentre si semplificano al massimo i costumi, in un modo che nemmeno gli esseri irrazionali farebbero. Non è questo ciò che Nostro Signore voleva per i suoiseguaci.

Il problema non sta nell’abbigliamento appariscente o nelle onoranze, ma nel voler richiamare l’attenzione su di sé, vale a dire, nell’aver l’intenzione, non di lodare Dio, ma di lodare se stessi. I costumi enumerati da Nostro Signore, di per sé legittimi in alcune circostanze, erano del gusto dei dottori, più per superbia che per ammirazione per le cose belle, per il desiderio di glorificare Dio o per l’intento di far bene al prossimo. Il loro obiettivo era vanagloriarsi, ostentare superiorità, in fondo, essere “adorati”, incensati dagli altri. Usurpavano, infatti, il luogo centrale appartenente a Dio. Quell’apparato di dignità, quell’apparenza di onore, rispetto e saggezza avrebbero dovuto corrispondere alla realtà; ossia, è la vita di tali dottori che avrebbe dovuto renderli creditori di questi omaggi.

Invece, la realtà era molto differente e Nostro Signore la denuncerà.

L’apparenza, manto di una realtà peccaminosa

40 “Divorano le case delle vedove e ostentano di fare lunghe preghiere; essi riceveranno una condanna più grave’”.

Nell’Antico Testamento, le vedove avevano molto poca protezione e, così, uomini privi di scrupoli cercavano di strappare loro quanto potevano. Comune era il caso di vedove senza figli adulti, alle quali toccava la responsabilità di amministrare la fortuna della famiglia. In questa situazione di abbandono, come indica Nostro Signore, s’introduceva un maestro della Legge che, con la scusa di pregare, terminava per rapinare i loro averi.

Denunciando questo tipo di azioni, il Divino Maestro chiariva ai suoi ascoltatori quanto i dottori della Legge rappresentassero esteriormente quello che di fatto non erano. Conoscevano tutti i meandri della Legge, senza praticarla… In realtà, si comportavano come voraci divoratori di fortune altrui. Più ancora, essendo periti di legge, sapevano bene condurrei processi giuridici che circondavano ogni causa di successione e, con ciò, avevano maggior facilità a finire per impossessarsi del denaro.

Pertanto, sotto l’apparenza di virtù si celava una mentalità da vampiro, il cui fine era strappare agli altri, in forma ingiusta e senza scrupoli, quanto fosse possibile.

Le funeste conseguenze dell’orgoglio

Questo ci serva da ammonimento contro i pericoli dell’orgoglio. Ogni vanità – quando accettata con indulgenza, come accadeva a questi dottori –finisce per condurre alla disobbedienza dei Comandamenti di Dio. Condizione essenziale per mantenersi fedeli alla Legge è l’umiltà; la chiave della pratica duratura di tutti i precetti divini è questa virtù.

Nel caso dei dottori della Legge, l’egoismo orgoglioso, aggravato dalla doppiezza di spirito, l’ipocrisia di rappresentare in maniera pomposa quello che non si è, li rende meritevoli della “peggior condanna”, secondo l’energica espressione dello stesso Uomo-Dio: la dannazione eterna, nell’inferno, castigo adeguato per chi, prendendo le vie dell’orgoglio, si impelaga nella disonestà e in altri peccati. Fuggiamo, dunque, da ogni vanagloria, per non finire per rompere con gli altri Comandamenti della Legge di Dio, e abbiamo la certezza di questa verità: alla radice di ogni peccato grave c’è sempre l’orgoglio.

Fare il bene per ostentazione

41 “Gesù, sedutosi di fronte al tesoro, osservava come la folla gettava monete nel tesoro. E tanti ricchi ne gettavano molte”.

L’obolo della vedova

All’esempio dato sul comportamento dei legisti, NostroSignore contrappone la scena che segue. Esistevano nel Tempio tredici casse per il deposito delle elemosine. “Il gazofilacio, o tesorodel Tempio”, ci informa padre Tuya, “era situato nell’atrio delle donne. Probabilmente c’erano varie camere per la custodia di questi tesori. Nella parte anteriore, secondo la Mishnah, c’erano tredici botole a forma di tromba, dall’apertura molto grande all’esterno, da dove si gettavano le offerte”.3

In quella piccola società – al contrario degli agglomerati di persone anonime, tipica delle grandi città moderne – tutti si conoscevano, pertanto, chi faceva l’elemosina attirava molto l’attenzione.

Ricordiamo anche che allora non esisteva la moneta, in carta ma soltanto monete coniate in metallo nobile come l’oro e l’argento o in metalli di minor valore. Così, queste casse assecondavano molto il desiderio di ostentazione. Chi possedeva una grande fortuna poteva con facilità scaricarvi enormi quantità di monete, in maniera appariscente e rumorosa, ostentando di fronte ai presenti la sua presunta generosità. Come Nostro Signore aveva denunciato in un’altra occasione (cfr. Mt 6, 2), con frequenza l’azione di questi ipocriti era preceduta da squilli di tromba per annunciare che l’elemosina veniva data. Fatto questo, un nuovo squillo indicava l’uscita del donatore. Costui se ne andava coperto di gloria, centrodell’ammirazione delle persone presenti, che sussurravano elogi… calcolando, senza dubbio, qual era il montante depositato nella cassetta.

Seduto nel Tempio “davanti alla cassa delle elemosine”, il Divino Maestro osservava in silenzio questa scena tanto comune per chi conosceva il posto.

Uno smisurato contrasto

42 “Ma venuta una povera vedova vi gettò due spiccioli, cioè un quattrino”.
L’obolo della vedova

È importante evidenziare il contrasto dei due atteggiamenti. Possiamo immaginare la vedova, ormai di una certa età, che trascina i piedi, piegata per gli acciacchi del tempo. Secondo padre Tuya, lei gettò due “spiccioli”, l’equivalente di sedici parti di un denario, cioè, un’inezia, poiché “il denario era considerato come il salario quotidiano di un lavoratore”.4

Paragonato al pomposo rumore delle monete lanciate dai ricchi, siriduceva a quasi nulla il lieve rumore prodotto dalle due monetine della povera donna. Senza dubbio, poca impressione causò a coloro che si trovavano lì intorno, molto preoccupati a calcolare il valore approssimativo delle elemosine che erano depositate. Come vedremo poi, non aveva nulla di più da dare in offerta, forse per il fatto che la sua antica fortuna era stata dilapidata da qualche approfittatore, secondo la denuncia fatta da Gesù poco prima.

Di fronte a questa scena, Nostro Signore rompe il silenzio per trarne un salutare insegnamento.

La vera generosità

43 “Allora, chiamati a sé i discepoli, disse loro: “In verità vi dico: questa vedova ha gettato nel tesoro più di tutti gli altri. 44 Poiché tutti hanno dato del loro superfluo, essa invece, nella sua povertà, vi ha messo tutto quello che aveva, tutto quanto aveva per vivere’”.

L’impressione prodotta da queste prime parole del Maestro deve esser stata grande. Come poteva la povera vedova aver dato “più di tutti gli altri”,se questi avevano versato una grande quantità di monete d’oro, mentre lei appena due monetine di valore insignificante?
Ma venuta una povera vedova vi gettò due spiccioli

er chiarire il suo insegnamento, Gesù spiega: la vedova gettò nella cassetta quanto “possedeva per vivere”, mentre i ricchi diedero quello che gli avanzava. Facendo questo paragone, Cristo non voleva condannare i ricchi, ma elogiare quella donna per il fatto che non aveva tenuto nulla per sé. Infatti, quando un ricco consegna l’integrità dei suoi beni, dà di più rispetto a chi fa lo stesso, ma dispone di poco. Era il caso, per esempio, di Lazzaro, Marta e Maria, membri di una facoltosa famiglia di Israele, i quali si consegnarono interamente a Nostro Signore.

Quella vedova aveva dato tutto, mettendosi nelle mani di Dio. C’è proprio da credere che lo stesso Gesù le avesse concesso la grazia di procedere così, proponendoSi di proteggerla. Senza che questa lo sapesse, Egli concedeva alla povera donna un bene superiore a qualsiasi altro: la gloria di esser elogiata dal Verbo Incarnato. In questa compiacenza di Nostro Signore verso di lei, entrava una predestinazione alla gloria eterna.

All’estremo opposto stavano i maestri della Legge: questi “divorano le case delle vedove, fingendo di fare lunghe orazioni”, motivo per il quale “riceveranno la peggior condanna” (Mc 12, 40).

Dio conosce le intenzioni del cuore

In questi versetti, Nostro Signore contrappone l’episodio delle elemosine alla denuncia fatta precedentemente contro i dottori della Legge. In entrambi i casi, vediamo negli atteggiamenti dei personaggi l’esteriorità, ma non l’intimo. Tuttavia, “lo sguardo di Dio non è come quello dell’uomo, poiché l’uomo guarda all’apparenza, mentre Dio guarda al cuore” (I Sm 16, 7). Questo divino sguardo ci accompagna sempre, nulla gli sfugge. La nostra vita, i nostri atti, il nostro comportamento, sono giudicati con una precisione assoluta dallo sguardo di Dio, il quale penetra nell’intimo di tutti e analizza il fondo delle anime, sapendo perfettamente quello che succede in ognuna.

Comparando la disposizione di spirito dei maestri della Legge con quella della vedova, Gesù voleva render chiara l’esistenza di due estremi: quello della generosità, in contrasto con quello dell’egoismo e dell’amore disordinato a se stessi.

L’attaccamento, che in un ricco si distribuisce tra le sue migliaia di monete, nel caso del povero si concentra in poche. Rinunciare a esse esige non poco sacrificio, ancor più se sono soltanto due, ma quella donna le ha offerte generosamente, depositando la sua intera fiducia in Dio. È il medesimo atteggiamento assunto da un’altra vedova, della città di Sarepta nella Sidonia, contemplata nella prima lettura di questa domenica (I Re 17, 10-16). Quando ricevette il Profeta Elia a casa sua, lei aveva soltanto un pugno di farina e un po’ di olio per fare un ultimo pane per sé e suo figlio. Tuttavia, sollecitata dall’uomo di Dio, fu d’accordo di dargli quest’unico alimento. Per aver agito così, l’olio e la farina si moltiplicarono indefinitamente nella sua dispensa, finché tornò a cadere la pioggia sulla terra. Così è la ricompensa di Dio per chiunque darà con piacere e generosità.

I due poli

Anche noi dobbiamo esser generosi con Dio, quanto Egli è generoso con noi. Dobbiamo consegnarGli tutto! Tuttavia, questo non può esser interpretato come un obbligo di disfarci di quanto ci appartiene e metterci a vivere di elemosine. Poche persone ricevono questa sublime vocazione. Sitratta di comprendere che tutti i nostri beni – e anche noi stessi – sono proprietà di Dio.

La Liturgia di oggi ci presenta un’opzione tra due poli: quello della generosità totale o quello dell’egoismo totale. O scegliamo uno e odiamo l’altro, o viceversa. O siamo interamente di Dio, o siamo interamente di noistessi. Nelle vie di mezzo non rimane nessuno.

Se abbiamo una vocazione di vita consacrata, dobbiamo essere in ogni momento disposti a dar tutto, non soltanto a causa di un impegno assunto in una cerimonia, ma per la convinzione che la nostra vita è nelle mani di Dio.

Tuttavia, come applicare questo principio alla vita di chi è chiamato a costituire una famiglia e ha, pertanto, il dovere di stato di provvedere nella miglior maniera possibile ai suoi? La risposta è semplice. Questo “dar tutto” non significa disfarsi letteralmente dei propri beni, ma avere in relazione ad essi un’atteggiamento di un tale distacco che non costituiscano delle catene che impediscano l’elevazione dell’anima fino allecose celesti. Se non è così, si finisce per cadere nella deviazione dei dottori della Legge, denunciata da Nostro Signore in questo passo del Vangelo di San Marco.

III – Nella generosità, la perfetta gioia

L’esempio supremo del dare, dare di sé e darsi del tutto, lo troviamo nella seconda lettura di questa domenica, tratta dalla Lettera di San Paolo agli Ebrei (Eb 9, 24-28). Il Padre aveva un Figlio unigenito, generato da tutta l’eternità, e non creato. Il Suo amore per il Figlio e del Figlio per Lui è così intenso che da Loro procede una Terza Persona, che è lo Spirito Santo.
Cristo Pantocratore

Nonostante quest’amore sviscerato, il Padre ha deciso di consegnare suo Figlio per riscattare la natura umana, traviata dal peccato. E il Figlio, che avrebbe dovuto incarnarSi nella gloria, dato che la sua anima è nella visione beatifica, ha sospeso questa legge per assumere una natura mortale.5 Egli voleva dare, dare di Sé e darSidel tutto e, per amor nostro, ha assunto un corpo sofferente, soggetto a tutte le difficoltà della vita su questa Terra. “Una volta sola, Egli è apparso per annullare il peccato mediante il sacrificio di se stesso” (Eb 9, 24-26).

Ecco l’esempio divino, che invita ognuno di noi, secondo i nostri doveri e le nostre possibilità, a dare non solo di quello che ci avanza, ma dare tutto. È Dio che ci ha creato e redento,per questo a Lui apparteniamo. Tutto è Suo e deve tornare a Lui.

Così come il Sole, l’acqua o gli alberi, se fossero passibili di felicità, sarebbero completamente felici col dono generoso di sé, anche noi troveremo la nostra perfetta gioia nel dare, dare di noi e darci del tutto.

Rimedio per le nostre miserie e rifugio contro le tentazioni

Quando uno dà di sé, il suo egoismo finisce per esser soffocato a beneficio del servizio degli altri. Servire – sia dando un buon esempio, un buon consiglio, o prestando un qualche aiuto – ripara le nostre colpe e allo stesso tempo ci allontana dal peccato. Così, un modo di acquistare forze per affrontare le tentazioni è fare dono di noi stessi.

Al contrario, chi si chiude nel suo egoismo, è impreparato per il momento sempre presente della tentazione, poiché ci basta esistere per essere un focolaio di sollecitazioni per il peccato, come dice San Pietro: “Siate temperanti, vigilate. Il vostro nemico, il diavolo, come leone ruggente va in giro, cercando chi divorare” (I Pt 5, 8).

Cerchiamo la felicità dove essa si trova

Nulla porta più felicità a un’anima che restituire a Dio quello che Gli appartiene. La giustizia consiste nel “dare a ognuno il suo diritto”.6 Ora, se vengono da Dio tutte le cose che sono state create e sono a disposizione dell’uomo, questi è debitore di tutto quanto ha ricevuto da Lui. Il prestito fa parte degli accordi tra gli uomini. Chi presta resta in attesa della devoluzione del bene imprestato e chi l’ha preso in prestito ha l’obbligo di restituirlo al proprietario. Ora, se così è nei rapporti umani, non possiamo dimenticarci: tutto quello che abbiamo non è che un prestito di Dio! Dalla nostra vita, fino alle nostre capacità e qualità, passando per tutti i nostri beni.

Così saremo liberi, poiché è realmente libero solo chi è giusto, e mette nelle mani di Dio tutto quello che da Lui ha ricevuto.

Darebbe segni di follia chi, avendo perduto qualcosa all’interno di un teatro, andasse a cercarla al di fuori, adducendo che la via è più illuminata. E che cosa fa il mondo odierno? Essendo affondato nell’egoismo, corre dietro alla felicità, dove essa non si trova. Proclamando che la libertà consiste nel consegnarsi alla furia delle passioni e delle cattive inclinazioni,va alla ricerca della felicità nel vizio, nel peccato e in tante follie, dove trova, non la felicità, ma la frustrazione, la depressione e, a volte, le malattie. In questo modo, l’egoismo, fustigato da Nostro Signore nel Vangelo di oggi, già è castigato qui sulla Terra, essendo ancora meritevole della pena eterna.

La vera gioia consiste nella generosità virtuosa, poiché è in essa che l’uomocompie interamente la sua finalità di “conoscere, servire e amare Dio” in questo mondo, in modo da “esser elevato alla vita con Dio nel Cielo”.7

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1 Cfr. LAGRANGE, OP, Marie-Joseph. Évangile selon Saint Marc. 5.ed. Paris: J.

Gabalda et Fils, 1929, p.328.

2 TUYA, OP, Manuel de. Biblia comentada. Evangelios. Madrid: BAC, 1964,

tomo V, p.499-500.

3 Idem, p.710.

4 Idem, p.710-711.

5 Cfr. SAN TOMMASO D’AQUINO. Somma Teologica. III, q.14, a.1, ad 2.

6 Cfr. SAN TOMMASO D’AQUINO. Somma Teologica. II-II, q.58, a.1.

Miracolo e mistero della Madonna di Guadalupe

La Visita al Santissimo Sacramento di Sant’Alfonso Maria de Liguori

VISITA AL SANTISSIMO SACRAMENTO
Signor mio Gesù Cristo, che per l’amore che portate agli uomini ve ne state notte e giorno in questo Sacramento tutto pieno di pietà e d’amore, aspettando, chiamando ed accogliendo tutti coloro che vengono a visitarvi; io vi credo presente nel Sacramento dell’altare; vi adoro dall’abisso del mio niente, e vi ringrazio di quante grazie mi avete fatte, specialmente di avermi donato voi stesso in questo Sacramento, d’avermi data per avvocata la vostra santissima Madre Maria e d’avermi chiamato a visitarvi in questa chiesa. Io saluto oggi il vostro amantissimo cuore, ed intendo salutarlo per tre fini: prima in ringraziamento di questo gran dono. Secondo per compensarvi tutte le ingiurie che avete ricevute da tutti i vostri nemici in questo Sacramento. Terzo intendo con questa visita adorarvi in tutt’i luoghi della terra, dove voi sacramentato ve ne state meno riverito e più abbandonato. Gesù mio, io v’amo con tutto il cuore. Mi pento d’avere per lo passato tante volte disgustata la vostra bontà infinita. Propongo colla grazia vostra di più non offendervi per l’avvenire; ed al presente miserabile qual sono io mi consacro tutto a voi, vi dono e rinunzio tutta la mia volontà, gli affetti, i desideri e tutte le cose mie. Da oggi avanti fate voi di me e delle mie cose tutto quello che vi piace. Solo vi cerco e voglio il vostro santo amore, la perseveranza finale e l’adempimento perfetto della vostra volontà. Vi raccomando le anime del purgatorio, specialmente le più divote del SS. Sacramento e di Maria santissima. Vi raccomando ancora tutti i poveri peccatori. Unisco infine, Salvatore mio caro, tutti gli affetti miei cogli affetti del vostro amorosissimo Cuore e così uniti gli offerisco al vostro Eterno Padre e lo prego in nome vostro che per vostro amore gli accetti e gli esaudisca.

1 agosto: Sant’Alfonso Maria de’ Liguori

Il 1° agosto si celebra la festa di Sant’Alfonso Maria de’Liguori, Vescovo, Confessore e Dottore della Chiesa. Fondatore della Congregazione del Santissimo Redentore, è il Sto Afonso de Ligorio.jpgtrattatista per eccellenza della morale cattolica, noto per la sua profonda devozione allaMadonna, e in lode alla Santa Madre scrisse una delle sue opere più belle: le Glorie di Maria. Da lui abbiamo solo una sintesi biografica, scritta da Don Guéranger:

Liguori è nato da genitori nobili di Napoli, il 27 settembre 1696. La sua giovinezza fu pia, era studioso e caritatevole. A 17 anni era dottore di Diritto civile e canonico. E cominciò poco dopo una brillante carriera di avvocato. Ma né il successo né il desiderio di suo padre, che lo voleva sposato, gli hanno impedito di lasciare il mondo. Davanti all’altare della Madonna, fece il voto di diventare sacerdote. Ordinato sacerdote nel 1726, si dedicò alla predicazione. Nel 1729, un’epidemia gli permise di dedicarsi ai pazienti, a Napoli. Poco dopo si ritirò con i compagni, a Santa Maria dei Monti, e con loro si preparò per l’evangelizzazione dei campi.

Nel 1732, fondò la Congregazione del Santissimo Redentore, che dovrebbe causargli molte difficoltà e persecuzioni. Comunque, i postulanti arrivarono e l’istituto è cresciuto molto rapidamente. Nel 1762 fu nominato Vescovo di Sant’Agata dei Goti, vicino a Napoli. Subito dopo intraprese una visita alla sua diocesi, predicando in tutte le parrocchie e riformando il clero. Ha continuato a dirigere il suo Istituto e anche quello delle suore, che aveva fondato per fornire il supporto, attraverso la sua preghiera contemplativa, ai suoi figli missionari.

Nel 1765, si è dimesso dal ministero episcopale ed è tornato a vivere tra i loro figli. Presto una scissione avvenne presso l’Istituto di Redentoristi e Sant’Alfonso si trovò espulso dalla propria famiglia religiosa. La provazione era troppo grande, ma lui non si perse d’animo e anche predisse che l’unità si ristabilirebbe dopo la sua morte. Alle sue malattie si sono aggiunte le sofferenze morali che causarono lunghi periodi di scrupoli e varie tentazioni. Tuttavia, il suo amore di Dio non fece altro che crescere.

Infine, il 1° agosto 1787, rese l’anima al Signore, al momento in cui le campane suonavano l’Angelus. Gregorio XVI lo iscrisse nel catalogo dei Santi nel 1839, e Pio IX lo dicchiarò Dottore della Chiesa.

In mezzo a una situazione imminente, il tunnel buio

Da quanto sopra descritto, diventa chiaro che la carriera terrena di Sant’Alfonso ebbe un certo momento paragonabile ad un tunnel buio, dove fu obbligato a passare. Non si tratta solo di una provazione o sofferenza, ma di una sorta di delusione con la quale tutto ciò che considerava come il significato della sua vita, sembrava crollare. Divenne privo di qualsiasi dono, vantaggio o bene che non fosse la pura grazia di Dio, che agiva probabilmente in maniera insensibile dentro la sua anima.

Era un avvocato brillante, dotato di insolita intelligenza, nato da nobile famiglia, che aveva abbandonato una situazione umana di buon auspicio e che poteva favorire la sua carriera e le ambizioni, per dedicarsi solo al sacerdozio. In una fase successiva, fonda una congregazione religiosa. Questo Istituto fiorisce, e il suo fondatore diventa un uomo ben considerato dalla Santa Sede. Scrive ottimi libri, diffusi in tutta Europa, ed è acclamato come un maestro di grande peso nella vita intellettuale cattolica del suo tempo. Poco dopo si è elevato all’episcopato.

Indubbiamente una situazione eminente, con tutti gli aspetti di una vocazione di successo: come prete si fece religioso, come religioso, fondatore e superiore generale; inoltre, con l’onore dell’episcopato, si rese conto che il buon odore della sua dottrina profumava l’intera Europa. Si direbbe, quindi, che i desideri con cui era ordinato sono stati realizzati, e la sua vita aveva raggiunto l’obiettivo desiderato dalla Provvidenza. A quell’altezza, poteva morire e dire a Dio, per parafrasare San Paolo: “Ho combattuto la buona battaglia, dammi ora il premio della tua gloria!”

Ma nel momento in cui tutto sembrava raggiunto, una catastrofe. Vescovo rassegnato, medico e moralista, superiore generale della comunità religiosa da lui fondata, Sant’Alfonso viene espulso a causa di intrighi, equivoci e disinformazioni. Immaginiamo cheAfonso de Ligorio.jpgcosarappresenta a un fondatore, essere licenziato dal proprio istituto dalla Santa Sede, vedendosi da un momento all’altro, senza risorse e mezzi di sussistenza!

Destino delle anime amate dalla Provvidenza

Aggiungete a ciò un’altra situazione di prova: cominciano a tormentarlo le malattie, che l’accompagnarono fino alla fine della vita. Tra di loro, la febbre reumatica che lo paralizzò per qualche tempo e nocque la posizione del collo, impedendogli di rimanere inposizione verticale. Passò a vivere con la testa china, e questo viene dimostrato in alcune foto che fece. Oltre alle malattie, fu colpito da tentazioni molto forti, anche contro lapurezza e la fede. Tutto ciò si accumulava in un uomo già distrutto.

Tuttavia, questo era esattamente il premio massimo per coronare la sua esistenza. Era la crocifissione, dopo un lungo apostolato ed un’instancabile azione per il bene degli altri.

Così agisce, la maggior parte delle volte la Provvidenza, per quanto riguarda le anime amate da Lei. Sono alcune situazioni in cui tutti i mali vengono insieme e c’è una sorta di crepuscolo generale. Poi, l’anima purificata, lavata dalla sofferenza, torna a godere della grazia del Signore. Allora essa respira, si sente un altra, trasformata.

Naturalmente, questo è stato l’ultimo atto di santificazione, lo sforzo finale che il Signore ha chiesto a Sant’Alfonso de’Liguori.

Combattimenti contro il giansenismo

Si deve dire che gran parte della persecuzione subita da Sant’Alfonso furono motivate dal giansenismo che infuriava nel suo tempo, e a cui si oppose con intenso zelo e vigore.

La corrente giansenista, secondo un pretesto di severità, infondeva precetti morali così sbagliati, che le persone si scoraggiavano dalla salvezza, dato che dopo tutto non riuscivano a soddisfare la morale dei farisei, come venivano presentate.

Il punto più sconcertante difeso dal giansenismo riguardava la dottrina della predestinazione. In base a questa, l’uomo doveva compiere quella morale tremendamente rigorosa, avendo su di lui uno sguardo incline all’irritazione e alla vendetta di un Dio, la cui santità consisteva solo di essere in attesa del peccato per infliggere la punizione.

D’altra parte, però, i giansenisti affermavano che il Cielo e l’inferno non erano dati agli uomini secondo le loro opere buone o cattive, perché Dio predestinava agli uomini quello che voleva. In modo che la persona poteva passare tutta la vita a peccare e anche così andare in paradiso, o invece, praticare le buone azioni e cadere nell’inferno, secondo il desiderio divino.

Bene, così è facile capire come gli uomini persero completamente l’incoraggiamento a praticare la virtù e anche il motivo per non cadere nel vizio. Perché, in ultima analisi, se finisco condannato, nonostante abbia realizzato tantissimi atti di virtù, insomma non sono libero di fare o non fare qualcosa, perché è Dio che decide, non io. Quindi, perché mi sforzo di vivere una vita santa?

In fondo, era una predicazione di immoralità. Per questo motivo, secondo molti scorci storici, i giansenisti avevano le loro falsità nascoste. Ad esempio, digiunavano spesso, ma erano grandi cuochi. E una delle frittate più gustose e conosciute in quel tempo era la chiamata La Janseniste, con cui banchettavano nascosti durante i loro “digiuni”.

Non bastassero tali errori, attaccavano ancora le devozioni più elevate e lodevoli come, per esempio, la devozione al Sacro Cuore di Gesù. Si racconta il caso di un certo Vescovo di Pistoia, Scipione de’Ricci, che aveva fatto dipingere nella sua residenza un’immagine che rappresentava una devota gettando al fuoco la stampa del Sacro Cuore di Gesù, come se fosse oggetto scaramantico, mentre lui, Ricci, teneva in mano la croce ed il calice con l’Eucaristia, simboli di autentica pietà (come veniva capita).

Questo rifiuto si spiega con il fatto che la devozione al Sacro Cuore di Gesù rappresenti, in qualche modo, l’anti-giansenismo. Si infonde la bontà, la misericordia, la pazienza del Salvatore, e dimostra il fatto che l’uomo, attraverso le buone opere può gradire a Dio e raggiungere la salvezza. Esprime, inoltre, che il nostro Dio è giusto e pieno di amore, e non un tiranno arbitrario, un esattore spietato rispetto all’umanità.

È comprensibile, quindi, che di fronte a questa corrente giansenista Sant’Alfonso Maria de’Liguori abbia preso un atteggiamento energico nelle sue opere morali. E che abbia sofferto, perciò, tutti i tipi di attacchi e persecuzioni dei suoi avversari, raggiungendo l’apice di contrattempi e disgrazie sopra menzionati.

Lezione di vita per i cattolici

Riteniamo che l’esistenza di Sant’Alfonso, laboriosa, piena di prove, ma coronata dal trionfo della virtù, una lezione di fiducia e di perseveranza per tutti noi. Nei momenti più Santo Afonso de Ligorio.jpgdifficili di tentazioni, dolori e disturbi, le brutali persecuzioni, quando i suoi più vicini gli provocarono crudeli delusioni, anche così mai si scoraggiò, mai si disincantò del suo desiderio di raggiungere la santità, crescendo in pietà e devozione, man mano aumentavano le sofferenze.

È interessante ricordare un piccolo episodio della fine della sua vita, quando non riusciva a muoversi da solo, essendo guidato in una sedia a rotelle da un fratello laico redentorista. Allora, passeggiavano in convento, per i giardini ed i cortili, mentre facevano le loro preghiere. Più di una volta è successo a Sant’Alfonso di chiedere al suo compagno:

– Fratello, abbiamo già pregato questo Mistero del Rosario?

Il buon discepolo, anche di età un po’ avanzata, non si ricordava con certezza, e rispondeva:

– Signor Vescovo, non mi ricordo molto bene, ma credo di sì. In ogni caso, abbiamo già pregato tante volte il Rosario, che la Madonna non farà conto se per caso non abbiamo contemplato tale o tale altro Mistero …

E Sant’Alfonso rispondeva: – O mio caro fratello, questo no! Se passo un giorno senza recitare il Rosario completo, potrei perdere la mia anima!

Questa è la costanza, il coraggio, lo spirito perseverante di un Santo su cui si abbattero tutte le tempeste. Però, quello che successe a lui, può accadere nella vita di ognuno di noi. Quante volte abbiamo passato attraverso prove e difficoltà simili a quelli che affliggevano Sant’Alfonso?! E, non di rado, portando con sé l’impressione di un crollo, di qualcosa che era caduta a terra, di un sentiero impervio.

Tuttavia, dopo un periodo di difficoltà breve o lungo, ci appare più luce, più protezione, più vittorie, altre gioie. E così, con un susseguirsi di gallerie e di strade larghe, la Madonna ci porta a realizzare i disegni da Lei e del suo Divin Figlio per noi.

Imitiamo, dunque, Sant’Alfonso nella sua perseveranza, nella sua umile e profonda fiducia, comprendendo che nella nostra vita spirituale ci troveremo strade buie, senza che ci terrorizziamo da esse. Al di là di questa oscurità, la Provvidenza definisce un percorso ancora più luminoso e più bello di quello precedente.

Questi sono alcuni pensieri che vi proponiamo della vita straordinaria ed esaltante di Sant’Alfonso de‘Liguori. (Santi commentati da Mons. João Clá Dias, EP)

Sant’Agostino e il Mistero della Trinità

La leggenda vuole che Sant’Agostino si trovò ad interloquire con Gesù Bambino, sulla riva del mare, mentre affondava i suoi pensieri sul Mistero Trinitario. In quell’occasione, il Santo ricevette un grande insegnamento dal piccolo Bambino.Pinturicchio, Il mistero della Trinità (websource)È una delle leggende più studiate in campo storiografico e teologico. L’incontro tra Sant’Agostino e il Bambino sulla riva della spiaggia (di Civitavecchia? O di Ippona?) ha suscitato la curiosità di molti studiosi e non solo. In campo iconografico, la storia di questo incontro si è rivelata fonte di ispirazione per molti artisti: dal 1400 circa, fino ai giorni nostri, molti illustratori hanno realizzato sculture, quadri e mosaici con questa scena protagonista.Sant’Agostino: il mare in una bucaIl Santo Vescovo si trovava a passeggiare lungo una spiaggia, meditando sul Mistero della Trinità. Agostino vide allora un Bambino, che con un secchiello prendeva l’acqua dal mare e la versava in una piccola buca. Il Santo gli chiese cosa stesse facendo e il bambino disse che voleva travasare tutto il mare nella buca. Agostino disse: “Come puoi pensare di racchiudere il mare, che è così grande, in una buca che è così piccola?”. Il bambino, a sorpresa, rispose: “E tu come puoi pensare di comprendere Dio, che è infinito, con la tua mente, che è così limitata?”. Detto ciò, il bambino scomparve.Il miracoloso incontro nelle fontiQuesto episodio miracoloso è stato studiato da moltissimi addetti ai lavori, tra i più autorevoli ricordiamo Louise Lefrancois-Pillion, che nel 1908 scrisse La Légende de s. Jérome in Gazette des Beaux-Arts. L’episodio ha  una storia millenaria, sappiamo infatti che circolava già nel XIII secolo, sotto forma di exemplum (gli exempla rappresentavano un genere letterario molto diffuso nel Medioevo), derivato da uno scritto di Cesare d’Heisterbach, abate e scrittore tedesco. Ma da dove deriva allora l’attribuzione dell’episodio a Sant’Agostino?L’attribuzione dell’episodio a Sant’AgostinoTutto ciò fu poi collegato al Santo vescovo, ma in che modo? L’attribuzione al Santo d’Ippona risale almeno al 1263, data in cui per la prima volta si incontra la leggenda applicata a Sant’Agostino. L’attribuzione si fonda su un testo della Lettera apocrifa a Cirillo, scritta dallo stesso Agostino. In un passo, Agostino ricorda una rivelazione divina: “Augustine, Augustine, quid quaeris? Putasne brevi immittere vasculo mare totum?”, che, tradotta, significa: “Agostino, Agostino che cosa cerchi? Pensi forse di poter mettere tutto il mare nella tua nave?”Lippi, Agostino e il Mistero della Trinità (websource)L’incontro nell’iconografiaL’incontro si è rivelato fonte di ispirazione per molti artisti, godendo di immensa fortuna dal punto di vista iconografico. L’iconografia agostiniana legata alla Trinità trae le sue origini già dal ‘400 con Bernardino di Betto Betti (Pinturichio). Ma anche molti altri maestri hanno prodotto opere ispirate al miracolo: ricordiamo l’opera di Filippo Lippi (1450-1460) conservata a Pietroburgo. Nel ‘600 il maestro Marzio Ganassini produsse la sua opera conservata nel Chiostro della Chiesa della SS. Trinità a Viterbo. Più recentemente, nel 1986, Martin Gallego ha riprodotto il miracolo dell’incontro. L’opera è custodita a Madrid.

Pranzo di beneficenza a Città del Messico

Il 27 ottobre si è tenuto un Pranzo di beneficenza per le attività degli Araldi del Vangelo a Città del Messico.

L’evento si è tenuto presso il “Club España” a partire dall’incoronazione della Vergine.

C’è stata una presentazione musicale di un quintetto mozzafiato, è si è conclusa la giornata con l’incoronazione di un’immagine della Vergine. C’era molta gioia da tutti i presenti.

12 settembre 2019: Festa del Santissimo Nome di Maria

Madonna di Pompei

Beata Maria Vergine del Rosario

“Santa Maria, Madre di Dio, prega per noi peccatori”…così recita l’Ave Maria che tutti i cattolici imparano fin da piccoli e non c’è forse giorno migliore di questo 12 settembre per prendersi il tempo di una preghiera visto che proprio oggi ricorre l’onomastico della Madre di Gesù Cristo.

MARIA, LA MADRE E L’AMORE

Per la Chiesa è la Madre di tutti, non solo di chi è venuto “dopo Cristo” ma dell’intera umanità che proviene direttamente da quell’affetto materno incarnato dal Santissimo Nome di Maria:per tutte le Maria (o nomi compositi) oggi è il caso di fare un deciso buon onomastico, ma Santa Maria per l’intera Chiesa Cattolica non è altro che la testimonianza reale dell’Amore di Cristo per ciascuno dei suoi Figli. «Dopo il nome di Gesù non c’è nome più dolce e soave da invocare di quello della Madre Sua e nostra», scrive Vatican News, il canale ufficiale della Santa Sede, per celebrare la giornata di oggi sotto il nome e la benedizione della Madre di tutti. Il nome di Maria porta consolazione a chi è afflitto, allieta il mondo ma non solo: «il nome di Maria fa anche inchinare gli angeli al solo pronunciarlo, e fa tremare dalla paura i demoni», conclude il Vaticano esortando alla festa dell’intera cristianità in questo 12 settembre. (agg. di Niccolò Magnani)

I 3 SIGNIFICATI DEL SANTISSIMO NOME

Sono tre i principali significati del nome di Santa Maria, che quest’oggi viene celebrata dalla Chiesa cattolica. Il primo, come ricorda il sito dei Papaboys, è quello di “mare”, dall’ebraico Maryam, nome che viene usato per esprimere la “sovrabbondanza delle grazie sparse sopra di lei”. Così come tutti i fiumi sfociano prima o poi nell’oceano, “così tutti i tesori delle grazie celesti, tutte le eccelse prerogative e carismi furono versati sopra l’anima della Vergine”. Il secondo significato è quello di amarezza, visto che il cuore della Beata Vergine Maria nuotò in un mare di angoscia, così come aveva del resto già predetto il Profeta: “Come la Vergine era stata colmata più di tutti i Santi di grazia, così più di tutti loro doveva bere il calice amaro della passione del suo Figliuolo Gesù”. Infine il terzo significato, stella, una parola che ritroviamo anche nell’appellativo con cui la Chiesa invoca la stessa madre di Gesù: «Ave, Maris Stella». Questo vocabolo lo si evince anche dalle parole di S. Bernardo, che racconta così di Maria Santissima: “Ella è la pura e gloriosa stella che sorge da Giacobbe ed illumina tutto il mondo; la sua luce brilla nei cieli e penetra negli abissi, percorre la terra, infiamma d’amor divino ogni cuore, suscita le virtù e distrugge il vizio”. (aggiornamento di Davide Giancristofaro)

SANTA MARIA OGGI 12 SETTEMBRE

Il 12 settembre la Chiesa cattolica e il mondo cristiano nella sua interezza dedicano la giornata alla celebrazione del Santissimo Nome di Maria. Questa importantissima e sentita ricorrenza ha origini antiche, perchè risale, fonti storiche alla mano, al XII secolo. Tuttavia, per dovere di precisione, va detto che in quell’epoca era una festività celebrata soltanto nel territorio che oggi corrisponde a quello della Spagna. Il suo carattere di celebrazione a livello universale per quel che concerne tutto il mondo cristiano è dovuta alla decisione di Papa Innocenzo XI, il quale sul finire del 1600 e precisamente nel 1685, decise che la ricorrenza istituita da Giulo II doveva essere celebrata dai cristiani in ogni parte del mondo cattolico.

Date queste coordinate storico-temporali, parlando di Maria, si può iniziare con il dire che essa nasce nel I secolo a.C. e che la sua famiglia d’origine è di condizioni sociali non troppo agiate. Maria a 14 anni viene fatta convolare a nozze con Giuseppe, ebreo come Maria e di professione falegname. Le fonti ci raccontano che, secondo la tradizione ebraica, una volta celebrata l’unione, la sposa può andare a vivere sotto lo stesso tetto con il marito soltanto dopo un anno. Questo è il motivo per cui quando l’Arcangelo Gabriele si presenta a Maria, quest’ultima è ancora nella casa dei genitori. Dopo l’annuncio dell’Arcangelo Gabriele, che comunica a Maria che sta portando in grembo il figlio del Signore, i Vangeli raccontano di come Giuseppe rimanga spiazzato dalla gravidanza, considerando il fatto di non vivere ancora con Maria. Tuttavia una notte, in sogno, gli appare un angelo che gli svela come suo figlio sarà Gesù. Poi Giuseppe e Maria vanno a vivere nella stessa casa. Quando le cose sembrano andare avanti tranquillamente, ecco arrivare la necessità di andare a Betlemme, per rispondere al censimento richiesto dalle autorità romane. Il viaggio è molto complicato e Maria alla fine partorisce in una grotta, perché nessuno ha ospitato lei e Giuseppe. Successivamente alla nascita di Gesù e dopo l’incontro con i Re Magi, Maria e Giuseppe sono costretti a darsi alla fuga perché Erode è sulle tracce loro e del figlio di Dio. Degli anni giovanili di Gesù si sa davvero poco e le fonti tornano ad essere abbastanza ricche quando Gesù ha 30 anni. Troviamo Maria, ormai vedova, che conscia del ruolo di suo figlio, lo saluta mentre è in partenza per predicare la parola del Signore. Inoltre, Maria è sotto la croce, a vegliare il Figlio negli ultimi attimi della sua vita terrena. Di lei si sa che la morte la coglie pochi anni dopo: e subito dopo aver esalato l’ultimo respiro, Maria viene assunta in Cielo.

Santissimo Nome di Maria, uno dei culti più importanti del mondo cattolico

Il culto del Santissimo Nome di Maria, come è facilmente intuibile, risulta essere uno dei più importanti e sentiti in tutto il mondo cattolico, ma anche in altre religioni, come ad esempio il protestantesimo. Questa importanza è certificata anche dal fatto che sono diverse le città, tra cui ad esempio Roma, che festeggiano questa ricorrenza in modo molto sentito.

Veglia pasquale in Brasile, basilica degli Araldi in Cotia, São Paulo.

29 Aprile: Santa Caterina da Siena

Eccomi, eccomi! Signore io vengo…

RIT. ECCOMI, ECCOMI!
       SIGNORE IO VENGO.
       ECCOMI, ECCOMI!
       SI COMPIA IN ME LA TUA VOLONTÀ.

Nel mio Signore ho sperato
e su di me s’è chinato,
ha dato ascolto al mio grido,
m’ha liberato dalla morte.
RIT.

I miei piedi ha reso saldi,
sicuri ha reso i miei passi.
Ha messo sulla mia bocca
un nuovo canto di lode.
RIT.

Il sacrificio non gradisci,
ma m’hai aperto l’orecchio,
non hai voluto olocausti,
allora ho detto: Io vengo!
RIT.

Sul tuo libro di me è scritto:
Si compia il tuo volere.
Questo, mio Dio, desidero,
la tua legge è nel mio cuore.
RIT.

La tua giustizia ho proclamato,
non tengo chiuse le labbra.
Non rifiutarmi Signore,
la tua misericordia.
RIT.

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