Molte volte le vie del Signore sono incomprensibili agli occhi umani, ma Egli sa come
guidare le anime e gli avvenimenti per realizzare il suo piano di amore e salvezza.

Suor Chiara Isabella Morazzani Arráiz , EP
Fin dai tempi più remoti, i popoli antichi, immersi nella barbarie e nel paganesimo dopo il disastro della Torre di Babele, praticavano la schiavitù. Se una nazione trionfava sull’altra nella guerra, gli sconfitti erano incarcerati e condannati all’umiliante servitù. Perfino nell’Impero Romano, così civilizzato da molti punti di vista, gli schiavi avevano lo status giuridico di “cosa” (res), sulla quale il diritto conferiva ai nobili il potere di vita e di morte.
La Chiesa unisce l’umanità
È stata la Chiesa Cattolica che, come madre generosa, ha poco a poco reso più soave il duro giogo imposto dalla crudeltà, insegnando ovunque l’ “Amatevi l’un l’altro” (Gv 13,34), il nono comandamento di Gesù ed ha condotto le relazioni umane ad un equilibrio cristiano. Predicando l’esistenza di un’anima razionale e immortale, elevata alla partecipazione della vita divina attraverso il Battesimo, la dottrina cattolica innalza tutti alla dignità alla quale sono chiamati.
Lungi dall’abolire le diversità che derivano dalla missione e dai doni che il Creatore affida ad ogni anima in particolare, la Chiesa invita gli uomini a un rapporto di reciproco rispetto: di gioiosa sottomissione degli inferiori nei confronti dei superiori, vedendo in loro un riflesso dello stesso Dio e di affettuosa protezione di questi ultimi sui primi.
Già nel I secolo, il grande San Paolo scriveva agli Efesini una sintesi di questo stato d’animo: “Schiavi, obbedite ai vostri padroni secondo la carne con timore e tremore, con semplicità di spirito, come a Cristo, […] Anche voi, padroni, comportatevi allo stesso modo verso di loro, mettendo da parte le minacce, sapendo che per loro come per voi c’è un solo Signore nel cielo, e che non v’è preferenza di persone presso di lui.” (Ef 6, 5-9)»
Anime modello
Tuttavia, considerato l’orgoglio del cuore umano, nel corso della Storia, le ammonizioni dell’Apostolo delle genti e di tanti altri santi e predicatori, molte volte non sono state ascoltate, sia dai grandi che dai piccoli. Da qui derivano la tirannia da parte di alcuni e le ribellioni da parte di altri, causa di guerre e dissensi il cui racconto ci fa tremare di orrore.
Dio, però, ha suscitato innumerevoli uomini e donne che non solo hanno ascoltato la Sua Parola, ma hanno saputo metterla in pratica, facendosi modelli di tale portata da essere imitati dagli altri. Tutti loro, ognuno a proprio modo e secondo la propria specifica vocazione, hanno compreso a fondo la legge dell’Amore portata dal Signore e ad essa hanno conformato le loro vite.
Così è stato per la giovane schiava sudanese Giuseppina Bakhita, la cui docilità d’animo è stata tanto gradita agli occhi di Dio da portarla all’onore degli altari.»
Le vie dell’obbedienza
Dotata di un carattere docile e sottomesso, con una marcata propensione a compiere il bene agli altri, la piccola discendente della tribù dei Dagiu ha mostrato, fin dalla più tenera infanzia, di essere una prediletta di Dio.
Una volta, trovandosi con un’amica nelle vicinanze del suo villaggio, situato nella regione del Darfur, nell’ ovest del Sudan, Bakhita si imbatté in due uomini, comparsi all’improvviso da dietro un recinto. Uno di loro le chiese di andare a prendere un pacco che si era dimenticato nel bosco vicino, dicendo nel contempo alla sua compagna che poteva continuare il suo cammino e che sarebbe stata raggiunta più tardi. “Io non dubitavo di nulla, ho obbedito subito, come facevo sempre con mia madre” — ha raccontato.1
Protetti dalla foresta e lontani da ogni possibile testimone importuno, i due estranei afferrarono la bambina portandola a forza con loro, sotto la minaccia di un pugnale. La sua ingenuità, comprensibile visti i suoi otto anni, le era costata cara.
Tuttavia, erano proprio queste le misteriose vie della Provvidenza, grazie alle quali si sarebbero realizzati i disegni di Dio nei suoi confronti. Se Bakhita fosse stata una bambina ribelle o capricciosa, non c’è dubbio che non avrebbe accettato così volentieri di fare il favore a quell’estraneo. Avrebbe accelerato il passo e, in compagnia dell’amica, avrebbe raggiunto l’abitato, dove la presenza dei suoi genitori e fratelli avrebbe impedito agli sconosciuti di farle alcun male.
La sua vita sarebbe continuata nella normalità del convivenza familiare, tra faccende domestiche e pratiche rituali del culto animista che professavano i suoi parenti. Probabilmente non avrebbe mai conosciuto la Fede Cattolica, e sarebbe rimasta nelle tenebre del paganesimo.»
Una schiavitù provvidenziale
Spinta violentemente dai suoi rapitori, Bakhita fu condotta ad una crudele e dolorosa schiavitù. Nonostante ancora lo ignorasse, stava facendo i primi passi che l’avrebbero portata, attraverso atroci sofferenze, alla vera libertà di spirito e all’incontro col grande Signore che già amava, prima di conoscerLo.
Si, fin dalla prima infanzia, Bakhita si dilettava a contemplare il sole, la luna, le stelle e le bellezza della natura, chiedendosi meravigliata: “Chi è il padrone di tutte queste cose così belle? E sentiva una grande voglia di vederlo, di conoscerlo, di rendergli omaggio”.
Insegna San Tommaso d’Aquino che “una persona può raggiungere l’effetto del Battesimo grazie alla forza dello Spirito Santo, senza Battesimo d’acqua e perfino senza Battesimo di sangue, quando il suo cuore è mosso dallo Spirito Santo a credere e amare Dio e a pentirsi dei suoi peccati”.2 È ciò che si chiama Battesimo “di desiderio” o “di penitenza”. Appoggiandoci su questa dottrina, possiamo supporre che nell’anima piena di ammirazione della schiava sudanese brillasse la luce della grazia santificante, molto prima che lei ricevesse il Battesimo sacramentale.
Per Bakhita, tuttavia, era appena cominciata la terribile serie di patimenti che si sarebbe prolungata per dieci anni. Tale fu lo choc prodotto nel suo spirito dalla violenza del sequestro da farle dimenticare perfino il proprio nome. Così, quando fu interrogata dai banditi, non fu in grado di pronunciare neanche una parola. Allora uno di loro le ha detto: “Molto bene. Ti chiameremo Bakhita”. Nella sua voce c’era un accento ironico, dato che questo nome, in arabo, significa “fortunata”.»
Patimenti durante la prigionia
Giunti in un abitato, Bakhita venne introdotta in una capanna miserevole e rinchiusa in una stanza stretta e buia, dove rimase per un mese. “Quanto ho sofferto in quel luogo, non si può dire a parole”, avrebbe scritto più tardi. Alla fine, dopo quei giorni nei quali la porta si apriva solo per lasciar passare un misero pasto, la prigioniera poté uscire, non per essere messa in libertà, ma per essere consegnata al trafficante di schiavi che l’aveva appena acquistata.
Bakhita sarebbe stata venduta per altre cinque volte consecutive, ai più svariati padroni, esposta nei mercati, incatenata ai piedi da pesanti catene e obbligata a lavorare senza tregua per soddisfare i capricci dei suoi padroni. Messa a servizio della madre e della moglie di un generale, la giovane schiava affrontò i peggiori anni della sua esistenza, come lei stessa descrive: “Le sferzate si abbattevano su di noi senza misericordia, in modo che nei tre anni che fui al loro servizio, non mi ricordo di aver passato un solo giorno senza ferite, perché non ero ancora guarita dai colpi ricevuti che altri ne ricevevo ancora, senza saperne il motivo. […] Quanti maltrattamenti ricevono gli schiavi senza alcuna ragione! […] Quante mie compagne di sventura sono morte per le percosse subite!”.
Oltre a questi e ad altri tormenti, le fecero un tatuaggio che la obbligò a rimanere immobile sulla sua stuoia per oltre un mese. Bakhita fu segnata per sempre da 144 cicatrici, oltre che da un lieve difetto nel camminare.
Una volta, interrogata sulla veridicità di tutto quanto aveva descritto, affermò di aver omesso nei suoi racconti i dettagli veramente più spaventosi, visti solo da Dio e impossibili da essere detti o scritti. La mano del Signore non la abbandonò neppure un istante. Anche nei peggiori momenti, Bakhita sentiva dentro di sé una forza misteriosa che la sorreggeva, che la spingeva a comportarsi con docilità e obbedienza, senza mai cedere alla disperazione.»
Protezione amorosa di Dio
Anni dopo, gettando uno sguardo sul suo passato, avrebbe riconosciuto l’intervento divino nelle vicende della sua vita: “Posso dire veramente che non sono morta per un miracolo del Signore, che mi destinava a cose migliori”. E a Lui manifestava la sua gratitudine: “Se io rimanessi in ginocchio la vita intera, non direi, mai, a sufficienza, tutta la mia gratitudine al buon Dio”.
Una prova della protezione amorosa di Dio, fin dall’infanzia, è data dallo stato di castità e dalla preservazione dell’anima che conservò, pur sottoposta a innumerevoli torture. “Io sono stata sempre in mezzo al fango, ma non mi sono sporcata. […] La Madonna mi ha protetto, anche se non La conoscevo. […] In varie occasioni mi sono sentita protetta da un essere superiore”.»
Il trasferimento in Italia
Nel 1882, il generale che l’aveva comprata dovette far ritorno in Turchia, suo paese natale, perciò mise in vendita i suoi numerosi schiavi. Bakhita, facendo giustizia al suo nome, risvegliò subito la simpatia del console italiano Calisto Legnani, dal quale fu acquistata. “Questa volta sono stata veramente fortunata, perché il nuovo padrone era molto buono e ha cominciato a volermi tanto bene”.
Sebbene non risulti che il console avesse in qualche modo agito per iniziare alla Fede la giovane schiava, gli anni in cui questa visse a casa sua, furono il periodo dell’aurora dell’incontro con la Chiesa. Da cattolico che era, Legnani trattò Bakhita con bontà. Non esistevano castighi, botte, e nemmeno rimproveri, così lei poté godere della dolcezza domestica delle relazioni tra coloro che cercano di compiere i comandamenti della carità cristiana.
Di fronte all’avanzata di una rivoluzione nazionalista nel Sudan, Calisto Legnani dovette far ritorno in Italia. Su richiesta di Bakhita, la portò con sé. Appena giunti a Genova, il console cedette la giovane sudanese ai signori Michieli, amici suoi, che abitavano a Mirano, nel Veneto, avendo come compito speciale la cura della figlia, la piccola Mimina.»
L’incontro col suo vero Padrone e Signore
Un giorno, Bakhita ricevette da un amabile signore, che si era interessato a lei, un bel crocifisso d’argento: “Mi spiegò che Gesù Cristo, Figlio di Dio, era morto per noi. Io non sapevo chi fosse […]. Ricordo che di nascosto lo guardavo e sentivo una cosa in me che non so spiegare”. Poco a poco, la grazia lavorava l’anima sensibile della ex-schiava africana, aprendola alle realtà soprannaturali che non conosceva.
Nella sua Enciclica Spe Salvi, il Santo Padre Benedetto XVI così descrive il miracolo che si operò nell’intimo di Bakhita: “Dopo ‘padroni’ così terribili di cui fino a quel momento era stata proprietà, Bakhita venne a conoscere un ‘padrone’ totalmente diverso – nel dialetto veneziano, che ora aveva imparato, chiamava ‘paron’ il Dio vivente, il Dio di Gesù Cristo. Fino ad allora aveva conosciuto solo padroni che la disprezzavano e la maltrattavano o, nel caso migliore, la consideravano una schiava utile. Ora, però, sentiva dire che esiste un ‘paron’ al di sopra di tutti i padroni, il Signore di tutti i signori, e che questo Signore è buono, la bontà in persona. Veniva a sapere che questo Signore conosceva anche lei, aveva creato anche lei – anzi, che Egli la amava. Anche lei era amata, e proprio dal ‘Paron’ supremo, davanti al quale tutti gli altri padroni sono essi stessi soltanto miseri servi. Lei era conosciuta e amata ed era attesa. Anzi, questo Padrone aveva affrontato in prima persona il destino di essere picchiato e ora la aspettava « alla destra di Dio Padre»”.3»
Un’inattesa decisione piena di coraggio
Altre sofferenze attendevano Bakhita, sebbene di ordine molto diverso da quelle sopportate in precedenza: Dio le avrebbe chiesto una prova della sua dedizione, della sua rinuncia a tutto, per amore di Lui, offerta con libera e spontanea volontà.
Quando, ormai istruita nella Religione Cattolica dalle Suore Canossiane di Venezia, si preparava a ricevere il Battesimo, la sua padrona volle portarla di nuovo in Sudan, dove la famiglia Michieli aveva deciso di stabilirsi definitivamente. Malgrado il carattere docile e sottomesso, abituata a considerarsi proprietà dei suoi padroni, rivelò in quell’occasione, un coraggio ancora sconosciuto anche da quelli che la conoscevano meglio. Temendo di mettere a rischio la sua perseveranza, si rifiutò di seguire la sua signora.
Le promesse di una vita facile, la prospettiva di rivedere la sua patria, il profondo attaccamento a Mimina e la gratitudine ai suoi padroni, niente di tutto questo poté mutare la sua decisione di consegnarsi a Gesù per sempre. Bakhita si era mostrata sempre docile ai suoi superiori. Ora manifestava in un’altra forma questa virtù, obbedendo più a Dio che agli uomini (cfr. At 4, 19). “Era il Signore che mi infondeva tanta fermezza, perché voleva farmi tutta sua”.»
La consegna definitiva a Dio
Uscita vittoriosa da questa battaglia, Bakhita fu battezzata, cresimata e ricevette l’Eucaristia dalle mani del Patriarca di Venezia, il 9 febbraio 1890. Le furono posti i nomi di Giuseppina Margherita Fortunata. “Ho ricevuto il santo Battesimo con una gioia che solo gli angeli potrebbero descrivere”, avrebbe narrato più tardi.
Poco dopo, volendo suggellare la sua consegna a Dio in modo irreversibile, sollecitò il proprio ingresso nell’Istituto delle Figlie della Carità, fondato da Santa Maddalena di Canossa, a cui doveva il suo ingresso nella Chiesa. Nella festa dell’Immacolata Concezione, nel 1896, dopo aver compiuto il suo noviziato con esemplare fervore, Giuseppina pronunciò i voti nella Casa-Madre dell’Istituto, a Verona.
A partire da questo momento la sua vita fu un costante atto d’amore a Dio, un darsi agli altri, senza restrizioni, né riserve. Ora incaricata di funzioni umili, come la cucina o la portineria, ora inviata in missione in tutta Italia, la santa sudanese accettava con vera gioia tutto quanto le ordinavano, conquistando la simpatia di chi aveva intorno, senza stancarsi mai di dire: “Siate buoni, amate il Signore, pregate per coloro che non Lo conoscono”.
Sullo spirito missionario di Bakhita, Benedetto XVI commenta così nella sua enciclica: “La liberazione che aveva ricevuto mediante l’incontro con il Dio di Gesù Cristo, sentiva di doverla estendere, doveva essere donata anche ad altri, al maggior numero possibile di persone. La speranza, che era nata per lei e l’aveva ‘redenta’, non poteva tenerla per sé; questa speranza doveva raggiungere molti, raggiungere tutti”.4»
Sottomissione fino alla fine
Alla fine, dopo più di 50 anni di fruttuosa vita religiosa, durante i quali le sue virtù si purificarono nel fuoco della carità, Bakhita sentì la morte approssimarsi. Colpita da numerose bronchiti e polmoniti che le minarono la salute, sopportò tutto con forza d’animo. Nelle sue ultime parole, proferite poco prima della sua morte, lasciò trasparire il piacere che le riempiva l’anima: “Quando una persona ama tanto un’altra, desidera ardentemente andare vicino a lei: perché, allora, tanta paura della morte? La morte ci conduce a Dio”.
L’8 febbraio 1947, Suor Giuseppina ricevette gli estremi Sacramenti, seguendo con attenzione e devozione tutte le preghiere. Quel giorno era un sabato, quando lo seppe, il suo volto sembrò illuminarsi ed esclamò con gioia: “Come sono contenta! Madonna, Madonna!”. Furono queste le sue ultime parole prima di consegnare serenamente l’anima e trovarsi faccia a faccia col “Paron” che fin da piccina desiderava conoscere.
Il suo corpo, traslato presso la chiesa, fu oggetto di venerazione di numerosi fedeli, che per tre giorni affluirono, desiderosi di contemplare per l’ultima volta la cara Madre Moretta, come era affettuosamente conosciuta, che li aveva trattati sempre con tanta bontà. Miracolosamente, le sue membra si mantennero flessibili durante questo periodo, tanto da poterle muovere le braccia e posare la sua mano sopra il capo dei bambini.
Con questo mezzo, Santa Giuseppina Bakhita rivelava il grande segreto della santità che veniva riflessa nel suo stesso corpo. La via per la quale Dio l’aveva chiamata era stata quella della sottomissione eroica alla volontà divina e lei lasciava un modello da seguire. L’umiltà, la mansuetudine e l’obbedienza traspaiono nelle sue parole, con una disposizione veramente sublime della sua anima: “Se incontrassi quei negrieri che mi hanno rapita, e anche quelli che mi hanno torturata, mi inginocchierei a baciare le loro mani, perché se questo non fosse accaduto, io ora non sarei cristiana e religiosa”.
1 Salvo indicazione contraria, tutte le citazioni tra virgolette appartengono a DAGNINO, Suor Maria Luisa, Bakhita racconta la sua storia. Trad.
Cecilia Maringolo Canossiana, Roma: Città Nuova, 1989, pag. 38.
2 Cfr. Summa Teologica, III, q. 66, a. 11.
3 Benedetto XVI, Lettera Enciclica Spe Salvi, 30/11/2007, n.3.
4 Benedetto XVI, Lettera Enciclica Spe Salvi, 30/11/2007, n.3.
Rivista Araldi del Vangelo, Febbraio/2009, n. 70, p. 34 – 38
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