Quando San Bernardo inviò ad Alcobaça i suoi monaci a fondare il monastero, indicò le proporzioni che doveva avere il nuovo edificio. Quali erano?

Don Jorge Filipe Teixeira Lopes, EP

Un ameno pomeriggio primaverile dell’anno 1153, un gruppo di monaci rivestiti del caratteristico abito bianco giunse in terre lusitane e, per decisione di el-rei, s’insediò in un villaggio ubicato nell’intersezione di due piccoli fiumi: l’Alcoa e il Baça. Il loro lungo cammino era iniziato in Borgogna, nel regno di Francia, da dove venivano con ben definite istruzioni del loro abate, Bernardo di Chiaravalle. Qual era l’obiettivo di un così lungo e faticoso viaggio?

Chiesa conventuale del Monastero
di Alcobaça (Portogallo)

I monaci cistercensi inviati da San Bernardo delineano la pianta del monastero, alla
presenza del Re – Sala dei Re del Monastero di Alcobaça (Portogallo)


Fondazione dell’Insigne e Reale Monastero di Alcobaça

Pochi anni prima, nel marzo 1147, alla vigilia della riconquista della città di Santarém, Don Afonso Henriques aveva promesso di erigere un monastero in onore di Santa Maria, nel caso la sua impresa fosse andata a buon fine. Essendoci riuscito, decise di donare alcune terre all’Ordine di Cister – si crede perché era imparentato con San Bernardo, abate di Chiaravalle – al fine di dare compimento alla sua promessa.

Inoltre, per attrarre le benedizioni del Cielo sui territori appena conquistati, nulla di meglio che ordinare tale impresa a quell’Ordine, già famoso per la vita santa, austera e sacrale dei suoi monaci. Così, in un documento firmato 8 aprile 1153, Don Alfonso donò a Cister un vasto territorio di 44 mila ettari.

Tuttavia, la notizia della vittoria di el-rei non aveva costituito una sorpresa per l’abate Bernardo, il quale, grazie a una rivelazione divina, era già a conoscenza della presa di Santarém. Tale miracolo è riferito in un insieme barocco di pannelli in azulejo, ubicato nella Sala dei Re del Monastero di Alcobaça, dove si legge: “Il Nostro Padre San Bernardo dà notizia ai suoi monaci a Chiaravalle della conquista di Santarém, la mattina di quella stessa notte in cui fu presa, e con loro rende grazie a Dio per questa felicità”.

Forse il nostro lettore penserà che il re del Portogallo avesse chiesto anticipatamente le preziose preghiere dei monaci? In verità – si racconta in un altro pannello – San Bernardo aveva pregato “Dio con i suoi monaci per il buon esito dell’impresa dei portoghesi”, poiché aveva saputo dell’intenzione del re “per rivelazione del Cielo”.

Per questa ragione, quando qualche tempo dopo l’abate ricevette a Chiaravalle la lettera di Don Afonso Henriques, che gli dava la notizia della conquista di Santarém e gli chiedeva l’invio di monaci per soddisfare il voto, San Bernardo già era a conoscenza del successo ottenuto. E trattò subito per “mandare i monaci a fondare questo Insigne e Reale Monastero di Alcobaça e gli dava perciò le misure”.

L’universo fu forgiato in un’armonia perfetta

Quali erano queste misure? Per l’uomo dell’epoca di San Bernardo, l’universo era stato forgiato dalle mani di Dio in un’armonia perfetta, come canta il Salmo: “Se guardo il tuo cielo, opera delle tue dita, la luna e le stelle che tu hai fissate” (Sal 8, 4).

Era la casa che l’Altissimo volle edificare per Sé. Secondo l’opera intitolata De ædificio Dei – L’edificio di Dio –, scritta da un teologo di quel tempo, Dio aveva utilizzato come strumento di lavoro la sua stessa Sapienza, Nostro Signore Gesù Cristo, per creare tutte le cose. Insomma, egli argomenta, non era stato il Figlio di Dio chiamato nel Vangelo “figlio del falegname”?1 E il poeta Alain de Lille, suo contemporaneo, giunse anche a dare al Creatore l’epiteto di “mundi elegans architectus – abile architetto del mondo”.2

Ora, siccome l’universo era stato creato da Dio e, pertanto, il suo ordinamento interno era secondo le leggi dettate da Lui, il medievale concluse che era suo dovere mantenersi fedele a questa sacralità della creazione e, così, riprodurre su questa Terra una immagine che specchiasse nel modo più fedele possibile l’ordine dell’universo. E quale opera avrebbe potuto rifletterla meglio di una chiesa, tabernacolo dove Dio abita giorno e notte con il suo Corpo, Sangue, Anima e Divinità, sotto le Specie Eucaristiche?

Nuova Gerusalemme discesa da presso Dio

Impregnato di queste idee, l’artista del medioevo andò a cercare nelle Sacre Scritture le “misure” o proporzioni utilizzate da Dio per costruire l’universo. Nel desiderio di dare fondamento biblico ai suoi progetti architettonici, egli si appoggiò alla descrizione del Santuario fatto da Mosè (cfr. Es 25–39), alle misure del Tempio di Salomone (cfr. I Re 6–7) e alla visione del nuovo Tempio narrata dal profeta Ezechiele (cfr. Ez 40–42).

Una chiesa dovrebbe allora rappresentare, in forma allegorica, “la nuova Gerusalemme, scendere dal cielo, da Dio” (Ap 21, 2), menzionata nell’Apocalisse. Non avrebbe essa potuto essere soltanto un edificio di culto, ornata sicuramente con begli ornamenti e dove si celebrava la sacra liturgia; più che questo, essa avrebbe dovuto essere Gerusalemme Celeste e il luogo appropriato nel quale Dio poteva farSi presente tra gli uomini. Per questo, già San Beda affermava che era necessario comprendere in forma mistica la fondazione del Tempio. Perché? Perché “la costruzione del tabernacolo e quella del Tempio significano l’unica e stessa Chiesa di Cristo”.3

Nell’anno 1153, un gruppo di monaci rivestiti del caratteristico abito bianco
s’insediò in un villaggio ubicato nell’intersezione di
due piccoli fiumi: l’Alcoa e il Baça

La “musica delle sfere”

D’altronde, questa concezione medievale sull’architettura degli edifici sacri fu rafforzata da alcune fonti pagane.4 Platone aveva difeso nel Timeo che quest’universo creato è unico e perfetto, e in esso si trovano principi di geometria, aritmetica e musica; elaborandolo ordinatamente, il Creatore aveva collocato certe leggi basate sulle proporzioni musicali. Soprattutto quelle di ottava (2:1), quarta (4:3) e quinta (3:2).

Così, studiare l’armonia invisibile posta dal Creatore nell’ordine della creazione era un mezzo per comprendere la realtà ultima delle cose, ossia, l’armonia con la quale Egli aveva disposto gli astri. In questo modo, per esempio, quando un musico componeva una melodia, egli non faceva altro che ripetere quelle leggi armoniche prefissate dal Creatore del Cielo e della Terra. Per questa ragione, per molti secoli si credette che la rotazione di ogni pianeta producesse suoni perfetti, sebbene impercettibili all’udito umano – cosa che si chiamò musica delle sfere.

Inoltre, l’architetto romano Vitruvio (secolo I a.C.) aveva equiparato le leggi dell’universo – che regolano il movimento di ogni pianeta – con le leggi dell’architettura. Così, la scienza musicale, l’astronomia e le scienze matematiche diventarono inseparabili per l’uomo medievale.5

Tutto fu creato con misura, calcolo e peso

Sant’Agostino, che aveva un vero fascino per l’ordine dell’universo, relazionò questi concetti di ordine con un’affermazione del Libro della Sapienza: “tu hai tutto disposto con misura, calcolo e peso” (11, 20). A giusto titolo, l’interpretazione data da lui a questo passo biblico divenne “la parola-chiave della visione medievale del mondo”.6 Come il Vescovo di Ippona, molti altri cristiani – tra cui Boezio e Sant’Isidoro di Siviglia –, credevano che l’universo, per la sua armonia intrinseca, fosse una specie di grande “musica enchiriadis – un manuale di armonia”.

Le chiese erano i luoghi dove i monaci entravano in “consonanza” con il Creatore, ripetendo, attraverso soavi melodie, la perpetua lode che gli Angeli e i Beati cantano nel Cielo al Creatore di tutte le cose. Per questa ragione, ai tempi della costruzione della nuova chiesa di Cluny, nel XI secolo, l’abate Ugo volle collocare nei capitelli del coro una rappresentazione dei toni musicali.7

In questa epoca di grande splendore mistico – afferma lo storico Georges Duby – “l’unica logica che quest’ambiente culturale ammise, fu quella delle armonie musicali”,8 ed era da queste che i monaci cercavano di captare l’ordine nascosto dell’universo. “I loro artefici assoggettavano il vocabolario della preghiera ai ritmi semplici della melodia gregoriana, perfettamente aggiustati a quelli del cosmo, quindi al pensiero divino”.9

Proporzioni che non sono mera coincidenza

Ma volgiamo il nostro sguardo, caro lettore, ai monaci cistercensi che giunsero in Portogallo, in quel lontano anno 1153. Che “misure” sarebbero state quelle inviate da San Bernardo per la costruzione del futuro Monastero di Alcobaça? In verità, non era la prima volta che religiosi dell’Ordine di Cister calpestavano il suolo lusitano. Alcuni anni prima, essi erano già stati inviati da San Bernardo per fondare o riformare altri monasteri, tra cui quello di San Giovanni di Tarouca, nel nord del regno portoghese. E studi recenti mostrano che la chiesa di Tarouca e quella di Alcobaça hanno come base le stesse “misure” o, per meglio dire, le stesse proporzioni musicali. Vediamo quali sono.

Nel Monastero di Alcobaça, la cui data d’inizio della costruzione è il 1178, la proporzione 4:3 ordina tutta la pianta della chiesa, e la proporzione 2:1 stabilisce la relazione tra la larghezza totale dell’abbazia e la larghezza totale della chiesa, tra l’altezza della navata centrale e quella delle navate laterali. Inoltre, la proporzione 3:2 stabilisce la relazione tra la larghezza e la profondità delle cappelle del transetto.10 La chiesa di Tarouca, iniziata nel 1152, ha le seguenti proporzioni: 2:1 nella lunghezza/larghezza della chiesa, e tra l’altezza della navata centrale e delle navate laterali; 3:2 nella relazione tra l’altezza e la larghezza della navata centrale; 4:3 nella relazione tra il fondo del transetto e la navata collaterale opposta e la distanza della crociera all’estremità della cappella maggiore.11 Inoltre, entrambe le chiese sono sotto un sistema di modulazione semplice secondo la quadratura (1:1), volgarmente denominato all’epoca ad quadratum.

La certezza che queste proporzioni non sono mera coincidenza sta nel fatto che esse si trovano anche nella chiesa dell’abbazia di Fontenay, nella regione della Borgogna, in Francia, la cui costruzione, secondo quanto si crede, fu orientata dallo stesso San Bernardo di Chiaravalle. 12 Questa chiesa è determinata dalla relazione di ottava e “la ragione di quinta, 2:3, regola la relazione della larghezza della crociera con la sua lunghezza, includendo il coro, e anche la relazione tra la larghezza della crociera e la larghezza totale della navata più le navate laterali. Infine, la ragione di quarta, 3:4, determina la ragione tra la larghezza totale della navata, più le navate laterali, e la lunghezza del transetto incluse le cappelle”.13

L’uomo ha nostalgia dell’armonia del Paradiso

Per lo spirito medievale, i suoni melodiosi che compiacciono l’udito – e per mezzo suo dilettano l’anima umana – potevano perfettamente essere materializzati in modo da piacere anche alla vista. Per questo, queste proporzioni si trovano in varie altre chiese e cattedrali medievali, come, per esempio, nella Cattedrale di Chartres, non essendo, pertanto, qualcosa di esclusivo dell’architettura cistercense. Ma, il lettore si chiederà certamente: per quale ragione questi uomini hanno utilizzato tali “misure” per costruire le loro chiese?

Essi volevano semplicemente riprodurre sulla Terra la Gerusalemme Celeste. Desiderando edificare chiese a immagine del Cielo, il medievale cercò di imitare Dio che, per mezzo di proporzioni sapienziali, aveva creato mirabilmente l’universo. E non sarebbero queste le più perfette?

Infatti, egli sapeva che, per l’armonia collocata nell’ordine dell’universo, non c’è nulla fuori posto. Sapeva anche che sta in pace solo l’anima “armonizzata” con la volontà di Dio e la sua divina grazia e che, quando pecca, l’uomo si ribella contro l’ordine dell’universo, originando così il disordine e, conseguentemente, la tristezza e il dolore.

Per questo, in una lettera ai prelati di Mogúncia, la mistica Santa Ildegarda di Bingen14 spiega il motivo per il quale la musica piace tanto all’anima umana. È perché l’uomo ha nostalgia dell’armonia esistente nel Paradiso, prima del peccato. Che armonia era questa se non la convivenza con Dio, il quale scendeva tutte le sere nel Paradiso a conversare con Adamo?

Infatti, i medievali avevano coscienza della loro sete di Dio e della necessità di recuperare i doni soprannaturali perduti col peccato dei nostri progenitori. Costruendo le loro chiese, i monaci, dotati di un sorprendente senso di ordine, desiderarono mitigare un po’ le asprezze di questa “valle di lacrime”, riproducendo su questa Terra una vera immagine del Cielo, ossia, una chiesa in tal modo simile alla Gerusalemme Celeste che diventasse avant la lettre “la dimora di Dio con gli uomini” (Ap 21, 3) – come riferisce San Giovanni nell’Apocalisse.

1 Cfr. GERHOH DE REICHERSBERG. De ædificio Dei, c.1: ML 194, 1193-1194. 
2 ALAIN DE LILLE. De planctu naturæ: ML 210, 453. 
3 SAN BEDA. De Templo Salomonis, c.1: ML 91, 737. “Quod ædificatio tabernaculi et templi unam eamdem Christi Ecclesiam designet”. 
4 Cfr. MEYER, Ann Raftery. Medieval Allegory and the Building of the New Jerusalem. Cambridge: D. S. Brewer, 2003, p.35. 5 Cfr. MATHIESEN, Thomas J. Greek music theory. In: CHRISTENSEN, Thomas (Ed.). The Cambridge History of Western Music Theory. Cambridge: Cambridge University Press, 2006, p.114. 
6 VON SIMSON, Otto. The Gothic Cathedral. Origins of Gothic Architecture and the Medieval Concept of Order. New York: Harper and Row, 1956, p.25. 
7 Cfr. SCILLIA, Charles. Meaning and the Cluny Capitals: Music as Metaphor. In: Gesta. Chicago. Anno XXVII. N.1-2 (1988); p.133-148. 
8 DUBY, Georges. O tempo das catedrais. A arte e a sociedade, 980-1420. Lisboa: Estampa, 1979, p.80. 
9 Idem, ibidem. 
10 Cfr. JORGE, Virgolino Ferreira. Espaço e euritmia na abadia medieval de Alcobaça. In: Boletim Cultural da Assembleia Distrital de Lisboa. Lisboa. N.93/1 (1999); p.12-14. 
11 Cfr. JORGE. Virgolino Ferreira. Arquitetura, medida e número na igreja cisterciense de São João de Tarouca. In: Cistercium. San Isidro de Dueñas. N.208 (gen.-giugno, 1997); p.382. 
12 Cfr. VON SIMSON, op. cit., p.48. 13 Idem, p.50. 
14 Cfr. SANTA IDELGARDA DI BINGEN. Epistola XLVII. Ad prælatos moguntinenses: ML 197, 221.

(Rivista Araldi del Vangelo, Febbraio/2015, n. 142, p. 20 – 23)